Via Maqueda come Eataly (tra locali etnici e grandi marchi), navi da crociera che si vedono dal Politeama, i Quattro Canti sui quali è sempre più difficile non farsi travolgere dal fiume di persone: Palermo da tempo ha assunto le caratteristiche di una città turistica. Non più solo d’estate, come avveniva fino a qualche anno fa. La fisionomia della città è inevitabilmente cambiata, eppure il capoluogo siciliano sembra ancora stordito dall’esplosione di un boom che non accenna a diminuire. Mentre in tutto il mondo ci si interroga da tempo sui processi di turistificazione e di gentrificazione, qui si assiste ancora alle fasi iniziali di questi fenomeni, con la corsa sfrenata a rincorrere il business.
Le prime conseguenze delle porte spalancate al turismo di massa si fanno notare. L’anno clou in questo senso è stato il 2018: dopo la biennale d’arte Manifesta e il riconoscimento di Capitale italiana della Cultura in città è arrivato ad esempio il colosso Airbnb, che ha avviato progetti importanti a Ballarò e a Danisinni; sono aumentate le navi da crociera al porto; gli affitti in centro storico sono aumentati e c’è stata un’omogeneizzazione dell’offerta commerciale, che sempre più guarda al turista come a “un pollo da spennare”. C’è chi però da quasi un mese si sta interrogando sulla trasformazioni radicali che la città sta affrontando: è l’assemblea permanente sulla turistificazione, che oggi avrà il terzo incontro al Museo internazionale delle Marionette. La domanda di fondo che ha animato i componenti è: Palermo sta diventando una città merce?
I primi due appuntamenti si sono tenuti allo Stato Brado, dove per più di dieci anni era esistito, o sarebbe meglio dire aveva resistito, il circolo Arci Malaussene. Anche quello, in un certo senso, già vittima della turistificazione. Al suo posto, dopo un periodo di chiusura, sono subentrate due associazioni – Maghweb e Hryo – che hanno mantenuto il circolo Arci, per poter tornare a offrire attività culturali e sociali, cambiando giusto il nome (appunto Stato Brado). Da questa esperienza arriva adesso un’assemblea cittadina che promette di essere una sorta di osservatorio sulla Palermo che cambia.
«La città aveva bisogno di parlarne» dice Federico Prestileo, giovane ricercatore palermitano che è stato tra i promotori dell’assemblea permanente. «Non è un caso che siano presenti ai tavoli tutti coloro che fanno politica attiva in città, dai centri sociali alla sinistra istituzionale all’Arci – continua – Era una cosa che si doveva fare. L’esigenza nasce da me, nel senso che io sto facendo un dottorato di ricerca che affronta il tema. Il fatto di aver vissuto quattro anni fuori, tra Torino e Milano, faceva sì che ogni volta che tornavo i cambiamenti di Palermo erano sempre più evidenti. Ma mi sembrava allo stesso tempo incredibile che nessuno si stesse prendendo la briga di parlarne. Quando a dicembre sono tornato, confrontandomi con la gente di Stato Brado ho scoperto che loro stavano organizzando la presentazione di un libro sul tema. E abbiamo deciso di unire gli sforzi».
Anche i giornali, poi, da tempo hanno posto l’accento su come stanno cambiando le città. Ultimamente Repubblica Palermo, ad esempio, ha pubblicato il reportage “Basta col centro storico fast food”. Il momento insomma era propizio. Soprattutto perché in tutta Europa da tempo è nata Set, che sta per Sud Europa di fronte alla turistificazione, ovvero una rete di realtà sociali provenienti da diverse città che «prova a resistere ai processi di turistificazione che le stanno investendo. Associazioni e collettivi di alcune di queste (Venezia, Napoli, Firenze, Genova, Roma, Bologna, Rimini, Bergamo, Valencia, Siviglia, Palma, Pamplona, Lisbona, Malta, Malaga, Madrid, Girona, Donostia/San Sebastian, Canarie, Camp de Terragona, Barcellona) – si legge sulla pagina Facebook – si sono incontrati nel corso dell’ultimo anno in diverse occasioni, con l’obiettivo di condividere e scambiare esperienze e conoscenze». Anche Palermo ha scelto di aderire a Set. «Finora il referente nel capoluogo siciliano ero stato io – dice Federico – Adesso invece c’è un vero e proprio nodo della rete. L’obiettivo a lungo termine è studiare il fenomeno in senso analitico: dall’emergenza abitativa al numero e alla disposizione degli host di Airbnb, oppure alla volontà di quantificare esattamente lo spopolamento del centro storico e altro ancora. Ovviamente gli aspetti da analizzare dipenderanno anche dalle capacità che saranno a disposizione in assemblea, dalla quale è arrivata la richiesta di formare i tavoli di lavoro».
Neanche il tempo di nascere, però, che il nodo palermitano che vuole interrogarsi sulla turistificazione della città ha dovuto affrontare la più prevedibile della domanda: che male c’è ad auspicare che Palermo, e più in generale la Sicilia, possano vivere di turismo viste le tante bellezze storiche e culturali presenti? «Era un muro su cui sapevamo che si sarebbe andato a sbattere – sorride Federico – Il turismo è un’industria che si può paragonare a quella pesante, legarsi a una monocultura economica mani e piedi, senza diversificare le opzioni, rende la città schiava. L’esempio dell’aeroporto di Trapani in questo senso è emblematico: è bastato il commissariamento dell’ente a far diminuire notevolmente i voli Rayanair, e oggi siamo già di fronte a un’infrastruttura praticamente abbandonata, con molti meno passeggeri. Palermo d’altro canto sta diventando uno scalo aeroportuale sempre più importante nel Mediterraneo. Un apparente vantaggio che però deve fare i conti col contemporaneo ampliamento del porto: sono previsti altri due moli per le navi crocieristiche ma, dopo gli incidenti avvenuti tra Napoli e Venezia nel 2019 e l’allarme lanciato da tempo dai comitati No grandi navi, ciò appare controproducente».
Il rischio, insomma, è quello che nell’euforia si inseguano modelli produttivi che già altrove hanno mostrato la propria fallacia e la propria insostenibilità – ambientale, sociale, economica. «Vivere solo di turismo significa innanzitutto regolarlo – concorda il ricercatore palermitano – e farlo rientrare all’interno di un sistema economico integrato, dove il gettito fiscale dovuto al turismo per esempio potrebbe finanziare la ricerca. Non ultimo c’è il discorso sulla marginalità: vivere solo di turismo vuol dire che potrà farlo solo chi è dentro un sistema di messa a profitto. Cosa succederà ad esempio in periferia, dove non c’è un’attrazione turistica?».
La voglia è di rendere itinerante gli incontri, dopo aver formato un gruppo coeso, anche per mostrarsi ed evitare facili etichette. Resta il fatto, comunque, che finora ci si è incontrati proprio in quel centro storico che sembra stia cedendo il passo sempre più alla prospettiva di vivere ad uso e consumo dei turisti. Anche se Palermo, in questo senso, resta un’eccezione: e la resistenza alla turistificazione, quando non cosciente, è comunque attiva. «Il centro storico di Palermo è stato finora preso, in questo senso, a macchia di leopardo – osserva Federico – Basta osservare via Maqueda, corso Vittorio Emanuele, la Kalsa attorno a piazza San Francesco, pochi pezzi di Ballarò e del Capo e della Vucciria, a breve la Fonderia: questi sì che sono a uso e consumo dei turisti. Ma quello che c’è nel mezzo, negli interstizi, è ancora una vita di marginalità. Il problema della turistificazione qui diventa evidente: non può essere che, una volta girato l’angolo non frequentato dal turista, l’immondizia non viene raccolta o le strade restano al buio».
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