Agli investigatori avrebbe detto che stava tornando a casa, quando qualcuno si è avvicinato, lo ha affiancato e gli ha esploso contro un colpo di pistola. Un proiettile, in effetti, lo ha raggiunto al braccio. Ma la versione di Salvatore Leonardo, nipote dell’ex consigliere comunale di Palagonia Marco Leonardo, è tutta da verificare. E come sia andata davvero la storia potrebbe aiutare a capire se, come sembra, quelle cadute dal braccio del giovane sono le ultime gocce di sangue in una faida cominciata il 5 ottobre 2016 all’interno del Cafè Europa di via Vittorio Emanuele, nel Comune calatino, quando il politico, zio di Salvatore, viene assassinato. A freddare l’esponente di Palagonia futura – già intercettato per via dei suoi rapporti con il boss palagonese Alfonso Fiammetta – è il bracciante agricolo 58enne Francesco Calcagno, ufficialmente per un debito di circa tremila euro. La conferma sulla verità del movente, però, potrebbe non arrivare mai: Calcagno è stato ucciso a sua volta il 23 agosto 2017, a poche settimane dalla prima udienza del processo per l’omicidio. Ammazzato, secondo le forze dell’ordine, dal 49enne di Licata Luigi Cassaro. Per gli investigatori, a incastrarlo ci sono sia le riprese delle telecamere di sorveglianza della zona dove è avvenuto l’agguato, sia la prova del dna condotta dalla scientifica. Cassaro, che si trova ancora in carcere, il delitto non lo ha mai confessato. E, anzi, continua a dirsi estraneo alla vicenda e a tacere: l’ipotesi è che sia stato assoldato.
È in questo contesto che, alcune settimane fa, un’altra pistola ha sparato. La notizia, però, prima di oggi non era mai trapelata. Anche perché le indagini sono in corso e vanno avanti a ritmo serrato: Salvatore Leonardo, meno che trentenne, ha solo qualche piccolo precedente di polizia. Niente che possa giustificare un agguato. Certo è che l’omicidio di suo zio qualcosa a Palagonia ha smosso. La voce del delitto di ottobre 2016 è arrivata rapidamente fino in carcere, dove Alfonso Fiammetta l’ha commentata – nel corso di un colloquio con i familiari – con il figlio Gaetano. Finito in manette, quest’ultimo, nei giorni scorsi nell’ambito dell’operazione Chaos condotta dal Ros dei carabinieri di Catania. Due giorni dopo l’assassinio di Leonardo, nel carcere di Caltanissetta, Fiammetta padre avrebbe raccomandato a Gaetano di mettersi in contatto con il figlio di Leonardo per dirgli «che lui era molto arrabbiato e molto vicino a loro». «L’ho trovato come un pazzo – sarebbero state le parole precise che Gaetano avrebbe dovuto riferire al figlio di Leonardo – Lui è fratello suo». I soggetti impliciti di questa frase sarebbero Alfonso Fiammetta e il defunto Marco Leonardo. Una dimostrazione di vicinanza del mafioso che non sarebbe l’unico segnale del coinvolgimento della cosca nella vita del politico.
Nel bar, quella mattina dell’ottobre di un anno fa, con lui c’era Sebastiano Vespa (palagonese, classe 1978), dipendente del giovane Gaetano Fiammetta (25 anni compiuti a luglio). Secondo i magistrati che li accusano entrambi, dopo l’arresto di Alfonso Fiammetta il gruppo di Palagonia – riferimento sul territorio della famiglia Santapaola-Ercolano – sarebbe passato nelle mani del presunto figlio d’arte. Aiutato dal più maturo Vespa, detto nano, che dal 2014 al 2015 sarebbe stato dipendente della F. G. trasporti e logistica srl, riconducibile a Fiammetta junior. Il nano sarebbe stato una sorta di portavoce del 25enne e un factotum della famiglia. Quando la moglie di Alfonso Fiammetta lo incontra per la strada, gli chiede perfino di comprare le tute per il marito, da fargli recapitare in carcere. Del modello che piacciono a lui, si raccomanda. E quando Vespa si ritrova coinvolto nel delitto dell’ex consigliere Leonardo, inquadrato dalle telecamere dell’esercizio commerciale, sarebbe a Gaetano Fiammetta che chiede il permesso di andarsi a presentare dai carabinieri di Palagonia, prima che fossero loro a braccarlo.
Nodo principale di quest’altra parte della ricostruzione è la pistola che Leonardo aveva con sé il giorno in cui è stato ucciso. E con la quale ha sparato con l’intento di colpire il suo assassino, prima di rimanere ferito a morte. La mira, però, non è dalla sua parte e il proiettile finisce nel corpo dell’innocente barista. Rimasto a terra senza vita, l’arma di Leonardo viene portata via da Vespa, che fugge. Non si fa trovare né dalle forze dell’ordine, né dai familiari. Chiede alla nipote di portargli il «telefono nero» – uno di quei cellulari riservati che, ai magistrati catanesi, hanno ricordato il modo di operare dei brigatisti – e dà mandato alla ex moglie di telefonare a Gaetano Fiammetta. Mentre il telefono squilla, le cimici ambientali raccolgono i commenti nella stanza: «Ha buttato la pistola – spiega qualcuno – gliela doveva lasciare là». Fiammetta e la ex moglie di Vespa si incontrano di persona, poi lei richiama l’ex coniuge: ha parlato con Gaetano, lo rassicura, «gli ho detto quello che mi hai detto tu». «Tuo compare mi ha detto – prosegue la donna – “Va bene, a posto”». L’autorizzazione, secondo gli investigatori, a costituirsi alle forze dell’ordine. Cosa che avviene poco dopo: Vespa viene segnalato per favoreggiamento personale e porto abusivo d’arma. Ma la pistola con la quale Leonardo ha sparato, quella mattina, e che Vespa avrebbe gettato via non è mai stata ritrovata.
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