Entra nel vivo e si arricchisce subito di misteri il processo sull’omicidio di Luigi Ilardo. Da decifrare ci sono spostamenti e frequentazioni del confidente del colonnello Michele Riccio, che operando da infiltrato, nell’ottobre 1995 aveva portato gli uomini del Ros fin dentro il covo di Bernardo Provenzano, all’epoca latitante. Ilardo venne ucciso a Catania sotto la sua abitazione a distanza di pochi mesi, la sera del 10 maggio 1996. Soltanto una settimana prima, il cugino di Giuseppe Madonia, aveva scelto di compiere il grande passo. A Roma, nella sede del Ros, davanti ai magistrati Tinebra, Caselli e Principato rendeva le prime dichiarazioni per rendere chiaro il suo impegno dalla parte dello Stato. Rimandato a Catania per sistemare le ultime incombenze familiari in vista di un nuovo incontro per formalizzare ufficialmente la collaborazione. Faccia a faccia che però non si è mai tenuto. Il processo, nato grazie alle testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia tra cui Eugenio Sturiale e Santo La Causa, vede sul banco degli imputati organizzatori e presunti esecutori dell’omicidio, tutti appartenenti a Cosa nostra. Si tratta di Maurizio Zuccaro, Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola (classe 1956 ndr) e Benedetto Cocimano. In un filone d’indagine parallelo la Procura di Catania indaga invece sui presunti mandanti occulti.
I primi testimoni ad essere sentiti sono stati Sebastiano Cassisi e Alessandro Scuderi. Inquadrati nel 1996 nella sezione omicidi della Polizia di Catania intervennero la sera di venerdì 10 maggio sul luogo dell’omicidio avvenuto tra via Quintino Sella e via Mario Sangiorgi. «C’era un Mercedes 250 con il cofano aperto, a terra c’era il cadavere di Luigi Ilardo – spiega al pm Pasquale Pacifico l’ispettore Cassisi – aveva ricevuto diversi colpi di arma da fuoco al tronco e alla testa. Venne sequestrato – prosegue – un telefono cellulare presente all’interno della macchina». Proprio sull’ultima giornata da vivo del confidente permangono i dubbi più grossi. Ilardo, normalmente sempre accompagnato da un autista poichè sprovvisto di patente, quella sera potrebbe essersi spostato da solo dalla masseria di famiglia di Lentini fino alla sua abitazione a Catania. «Lo stesso giorno in cui venne ucciso – racconta l’ispettore Scuderi – andò a pranzo a Catania nei pressi della stazione insieme a una donna, Silvana Pappalardo che era un’assicuratrice. Poi si recò a Lentini, dove tra l’altro c’era la festa del patrono Sant’Alfio».
In quel periodo sia Ros che Squadra mobile tenevano sotto controllo i telefoni di Ilardo, per motivi e con modalità diverse. Venivano monitorati i suoi spostamenti e i contatti. Sull’infiltrato era stata anche aperta un’indagine in relazione all’omicidio dell’avvocato Serafino Famà, ucciso a Catania nel novembre 1995. «Una nota della Dda di Caltanissetta – racconta il testimone Scuderi – ci informava che il Madonia in aula si era lamentato dell’avvocato». Da qui il presunto collegamento con Ilardo, cugino di Madonia e in libertà. Una tragedia diranno a distanza di anni i pentiti, pare, sapientemente orchestrata per sviare le indagini e gettare ombre su Ilardo che non verrà infatti implicato nel processo sulla morte del penalista. I sospetti degli investigatori si allargavano anche su suoi possibili collegamenti con le ‘ndrine calabresi e un cartello colombiano per il traffico di armi e droga: «I contatti calabresi erano molto frequenti – spiega il testimone in aula – con degli ‘ndranghetisti, una volta venne convocato con urgenza anche da un avvocato insieme a questi soggetti».
Le cimici della Squadra mobile vennero spente proprio il giorno del viaggio di Ilardo a Roma per essere sentito dai magistrati, ma qualche mese prima gli inquirenti captarono qualcosa che turbava fortemente l’intercettato: «Avevamo capito che dei ladri erano entrati a casa senza scassinare nulla. All’interno di una cassaforte avevano rubato ingenti quantità di denaro e gioielli». Una parte dei preziosi a distanza di anni venne riconosciuta tramite delle fotografie dalla vedova. Gli oggetti trafugati dalla cassaforte erano infatti tra le cose ritrovate all’interno del covo nell’Agrigentino in cui venne catturato il 20 maggio 1996 il super latitante Giovanni Brusca. In un successivo rilievo invece, altri gioielli appartenuti alla famiglia Ilardo sarebbe stati ritrovati in un appartamento di Castelvetrano «nelle disponibilità di Totò Riina».
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