Omicidio Iannì, il ricordo delle figlie 38 anni dopo «Lo Stato che volle il suo aiuto ci ha lasciate sole»

Di quel 28 agosto 1980 non si è parlato per molti anni in casa Iannì. Non una parola su quella sentenza di morte emessa dal boss Gerlando Alberti direttamente dal carcere e che ha deciso i destini di un’intera famiglia. «È stato un evento inaspettato, devastante. Sono cambiate di colpo le aspettative di tutte noi». Parla così oggi Liliana Iannì. A perdere la vita quel giorno è suo padre Carmelo, e per lei, la madre e le due sorelle la vita da quel momento non è stata certo facile. Quando viene ucciso, Carmelo ha 46 anni e gestisce un albergo che sogna un giorno di acquistare, Riva Smeralda, a Villagrazia di Carini. Una struttura che oggi esiste ancora, ma che ha assunto le vesti di un residence per famiglie e turisti. A mandare da lui due killer a volto scoperto mai individuati è quel boss arrestato, in piena latitanza, solo quattro giorni prima con una grossa operazione di polizia. Un blitz messo a segno grazie a indagini sotto copertura condotte proprio in quell’albergo e realizzate grazie alla sua collaborazione, e che ha permesso di raccogliere prove sufficienti per incastrare alcuni chimici marsigliesi che si occupavano della raffinazione della droga.

Di quel giorno, a distanza di quasi quarant’anni, i ricordi restano sfocati. Ed è difficile capire quanto valga la pena recuperare certe istantanee. «Lì in albergo in quel momento c’era solo nostra sorella minore, che ha sentito lo sparo – raccontano Liliana e Roberta -. A differenza nostra, lei non riesce ancora oggi a parlare apertamente di quel giorno, di quei momenti, di quello che accadde dopo». Le due sorelle maggiori invece, che all’epoca stavano terminando il liceo, da pochi anni hanno iniziato a metabolizzare in maniera diversa il proprio dolore, e da un’intervista insieme a Pif nel 2009 hanno cominciato a girare le scuole per raccontare chi fosse il padre e a collaborare alle storie raccontate attraverso l’app NoMa. Una mobilitazione che ha portato anche, dopo appelli e sollecitazioni, all’installazione nel 2017 di una targa commemorativa davanti all’ex Riva Smeralda, sul lungomare Cristoforo Colombo. «”Probabilmente coinvolto in traffico di droga”, è questo che all’indomani dell’omicidio titolavano i giornali – racconta con amarezza Roberta -. Per i primi giorni si proseguì su questa scia, gettando un’ombra su quello che era successo. Solo dopo qualche tempo in un trafiletto in decima pagina si accennò alla sua collaborazione, al suo ruolo fondamentale. Ma per noi tutto quello è stato un trauma doppio e ce lo siamo trascinati per almeno vent’anni, durante i quali non abbiamo avuto la forza e la voglia di raccontare nostro padre e il dramma vissuto».

Un silenzio, quello della famiglia, fatto soprattutto di isolamento. Dai conoscenti, che per pudore e rispetto non chiedevano; dallo Stato, che prima aveva chiesto al padre di collaborare ma che una volta morto era sparito. Lo stesso Stato che in questi anni ha negato a Iannì il riconoscimento della medaglia al valor civile. «Questo ha contribuito a chiuderci in noi stesse. Solo per caso, parlando con un vicino di casa, dieci anni dopo abbiamo scoperto che potevamo richiedere lo status di familiari di vittime di mafia e avere accesso quindi a una serie di diritti precisi per poterci risollevare. Una casualità, nessuno ci aveva mai spiegato nulla all’indomani dell’omicidio». In quei dieci anni però le quattro Iannì ce le fanno davvero dignitosamente con le proprie forze. La madre prova ad accollarsi da sola la gestione dell’albergo, ma è un’impresa troppo grande e cedono la gestione. Dividono poi a metà la casa in cui vivono a Palermo: ne vendono una parte, sanando i debiti con le banche, mentre continuano a vivere nell’altra. «Nostra madre era casalinga, sapeva solo cucire. Perciò si rimboccò le maniche e si mise a fare la sarta – raccontano le sorelle -. Offriva i suoi servizi alle boutique di via Libertà e via Ruggero Settimo, che la ricompensavano davvero con poco. Aveva 44 anni ed è lei che ad oggi, tirando le somme, ha pagato e continua a pagare il prezzo più alto, noi abbiamo trovato la nostra dimensione, lei no: vive in un’insicurezza e in un silenzio che non sappiamo perdonare a nessuno».

«E noi…noi volevamo studiare, avremmo sicuramente fatto una vita diversa, ma non è andata così». È un’epoca, quella, in cui di mafia non si parla quasi mai. Non in maniera esplicita, almeno. Se ne sa davvero poco, e questo vale sia per i comuni cittadini come Carmelo Iannì, sia per chi indaga, mostrandosi prima sotto copertura nel suo albergo e poi, a volto scoperto, nel blitz per incastrare i boss, scoprendo ingenuamente il piano dietro quell’operazione. «Per molti anni ho provato un senso di rabbia nei confronti delle forze dell’ordine – dice Liliana -, attribuivo loro la responsabilità per quello che era accaduto. Mi è stato detto che a quell’epoca chi faceva parte di un’indagine doveva anche portarla a compimento, e quindi erano loro che erano stati sotto copertura in albergo che dovevano operare quel blitz. Una giustificazione che comprendi con la logica, ma non col cuore. Ma il mio impegno a fianco delle forze dell’ordine oggi, tra progetti e confronto reciproco, è servito molto. Oggi ho la maturità per accettare quello che è successo, c’è una consapevolezza diversa e noi siamo riuscite a metabolizzare tutto parlandone con serenità. La nostra sofferenza è diventata orgoglio, siamo state noi per prime a dover comprendere che la scelta fatta da mio padre è servita per tutti, non solo a lui».

C’è tanta impreparazione, insomma, dietro l’omicidio di Carmelo Iannì. Leggerezze e superficialità che oggi, a distanza di 38 anni, la famiglia ha imparato a comprendere, in qualche modo. «Oggi scopriamo che sia all’epoca che ancora oggi la scelta di mio padre riscuote apprezzamenti, stima. E questo, in parte, colma la mancanza e quanto sofferto in questi anni. Abbiamo dato un senso a questa morte», spiega Roberta. In quell’albergo, però, non entreranno più, tranne per l’affissione della targa nel 2017: «È forte pensare che sto calpestando quel pavimento che ho conosciuto – dice Liliana -, ma mi guardo intorno ed è tutto diverso, tutto cambiato, l’hall è adesso l’ingresso di una portineria, lo studio di mio padre non esiste più e le cucine oggi sono una serie di appartamenti. È tutto molto strano. Ancora oggi, quando passo da quel tratto, quando attraverso Carini, mi giro dall’altra parte, perché fa ancora troppo male. Ci hanno detto che hanno intitolato anche una via a nostro padre, ma nessuno ci ha mai chiamato, ci ha mai ufficializzato niente e a noi non interessa andarla a cercare».

Silvia Buffa

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