Omicidio Fragalà, parla la figlia del penalista «Chi ha colpito aveva intenzione di uccidere»

«Quella sera è sceso da solo e nel punto in cui è stato aggredito non ci sono le telecamere, assurdo vero?». Inizia così il racconto di Marzia Fragalà, figlia dell’avvocato penalista Enzo, aggredito la sera del 23 febbraio 2010 a pochi metri dal suo studio in piazza Vittorio Emanuele Orlando e morto tre giorni dopo per la gravità delle ferite riportate. Le uniche telecamere nella zona sono quelle di una filiale del Banco di Sicilia, che hanno ripreso tre uomini, dei quali uno con il volto coperto da un casco integrale. Siamo a febbraio, alle venti è già buio pesto e quella sera piove forte.

«Erano a piedi, mio padre era a terra. Nelle immagini si vedono uscire dal sottopassaggio, girarsi verso il punto dell’aggressione e proseguire come se nulla fosse», ricorda la figlia. L’aggressione è stata rapidissima, una manciata di minuti, ma sufficienti per provocare ferite gravissime al penalista, colpito con insistenza alla testa. «All’inizio pensavamo si fosse trattato di una rapina, non potevamo immaginare altro – racconta Marzia – Non saprò mai se è stato premeditato o no, lui non scendeva quasi mai dallo studio da solo. Tranne quella sera». Sembra plausibile supporre, secondo la figlia, che gli assassini lo abbiano prima seguito per studiare i suoi movimenti ed essere certi di trovarlo da solo.

A coordinare le indagini sono i magistrati Nino Di Matteo, Carlo Lenzi Maurizio Scalia, che subito individuano tre soggetti potenzialmente coinvolti nell’omicidio: sono Francesco Arcuri, Antonino Siragusa e Salvatore Ingrassia, contro i quali però cadono tutte le accuse. «L’impianto accusatorio non ha retto. Anche io sono avvocato – spiega Marzia – e ho avuto subito il sentore che purtroppo non fosse forte abbastanza». L’arma del delitto non è mai stata trovata e nessuno ha mai potuto testimoniare di aver visto i tre indiziati nell’atto dell’aggressione. L’accusa viene sostanzialmente costruita su intercettazioni audio e sulle immagini immortalate dalle telecamere della zona.

«La cosa che più mi fa male è che in pratica siamo nelle mani dei pentiti, dipendiamo dalle loro dichiarazioni. Cioè dalla stessa gente che ha ucciso mio padre», continua la figlia. I collaboratori di giustizia che si sono pronunciati sul caso, infatti, non sono mancati: da Francesco Chiarello, che racconta di aver assistito alla riunione in cui i boss prepararono il piano contro Fragalà – senza mai fare i nomi di questi boss – a Monica Vitale, che per caso sente dal cugino Tommaso Di Giovanni la ricostruzione dell’omicidio e una sua possibile interpretazione: il penalista andava punito per un comportamento scorretto con la moglie di un cliente. «Questo movente è inverosimile, però fuga ogni dubbio: la matrice dell’omicidio di mio padre è mafiosa», dice con sicurezza Marzia.

«A lui la mafia faceva schifo – sottolinea la  figlia del legale che fu anche deputato – E ha sempre cercato, tramite la sua professione, di aiutare i commercianti vessati dagli estorsori». La figlia, che ripone la massima fiducia negli inquirenti che continuano a lavorare al caso, resta però perplessa riguardo alla teoria della spedizione punitiva: «Non ho mai creduto a questa spiegazione. L’intento di uccidere c’era fin dall’inizio. Perché accanirsi in quel modo violento contro una persona disarmata e colpita alle spalle? – si chiede – E perché insistere su parti vitali come la testa?».

Marzia Fragalà si pronuncia anche sulle ultime dichiarazioni, rilasciate ai pm a maggio e a luglio di quest’anno, del pentito Giuseppe Tantillo. Non lo ritiene un criminale di spessore e quindi in grado di entrare nel merito dell’omicidio del padre. «Penso che nell’ambiente tutti sappiano che la matrice è mafiosa, ma nessuno conosce le dinamiche reali. Tantillo può anche dire che sono stati quelli di Borgo Vecchio, ma gli stessi affiliati a Cosa nostra non parlano tra loro, sanno che ci potrebbero essere delle cellule impazzite pronte a pentirsi e rivelare tutto».

Silvia Buffa

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