Omicidio Felice Orlando, i testimoni del delitto «Ho fatto di tutto per rimuovere questo ricordo»

«Io c’ero quel giorno, purtroppo». Malgrado si sforzi visibilmente, Raffaella Spera non riesce a trattenere a lungo le lacrime. Quello che i giudici della seconda corte d’assise le chiedono oggi è per lei piuttosto doloroso: raccontare tutto quello che ricorda dell’omicidio di Felice Orlando, suo zio, ucciso il 17 novembre 1999. Delitto per il quale sono oggi a processo il 57enne Gaspare Di Maggio, di Cinisi, e il 62enne Vincenzo Pipitone, di Torretta, accusati di aver fatto parte del commando che quella sera uccise il macellaio punito da Cosa nostra. Anche se la vittima non faceva esattamente il macellaio, non aveva alcuna competenza, da pochi mesi era coinvolto in un passaggio di consegne per prendere in gestione la macelleria Vetrano dello Zen 2. Il luogo dove quella sera, poco prima delle sette, viene freddato davanti al banconista e alla nipote. Quest’ultima dava una mano stando alla cassa e gestiva i soldi dell’attività, che in buona parte se ne andavano tra gli stipendi e l’acquisto della merce.

«Io sono stata assunta da mio zio – racconta la donna -, lui frequentava quella macelleria, a volte veniva tutti i giorni, altre volte meno di frequente, chiedeva come andava l’attività, ma non serviva i clienti». Il giorno del delitto lei è lì, a lavoro dietro la cassa: «Purtroppo ero presente», ribadisce, facendo poi una pausa. Lei all’epoca aveva poco più di vent’anni. «Mio zio era arrivato da pochissimo quel pomeriggio, intorno alle 18.15-18.30, l’omicidio è stato intorno alle 18.45 circa, ricordo che ho chiamato tante volte la polizia, non arrivò subito. Di fronte alla porta d’ingresso della macelleria c’era la cassa con un banchetto di cemento, sotto al quale mi sono nascosta subito». Si nasconde appena sente esplodere i primi colpi. «Sono entrate due persone, una ha superato la porta, l’altra è rimasta fuori sull’uscio – ripercorre la dinamica -. All’inizio dalla porta a vetri sembravano solo due clienti, ma quello che è entrato aveva in mano una pistola. Mio zio era di spalle rispetto all’ingresso, stava parlando col banconista. Quello che è entrato lo ha chiamato per nome, lui ha girato solo la testa, poi si è girato verso di me, e sono partiti i colpi, alcuni mi sono anche passati sopra la testa».

«Ho fatto di tutto per rimuovere quel giorno – e si ferma ancora,piangendo -. Quello che è entrato ricordo che indossava una giacca trapuntata di colore scuro, non aveva il volto coperto, però non riesco a ricordare il suo viso, non ci sono riuscita neanche quella sera stessa in caserma, non so perché…avevo il terrore di ritrovarmelo davanti per strada. Ricordo che non era alto, sulla quarantina. Lui ha alzato la pistola, ma è entrato già armato. Ho sentito esplodere tanti colpi, non saprei contarli ma erano davvero tanti». È un attimo, anche se dilatata nei ricordi dolorosi della memoria, la scena dura pochi secondi. La donna non vede i killer scappare, esce dal suo nascondiglio solo dopo, quando tutto si placa e nella macelleria ripiomba il silenzio. «Quando sono uscita dal banchetto, lui era a terra ancora vivo, ma non credo fosse più cosciente, ho chiamato i soccorsi ripetutamente. Mentre il capannello di persone che si era subito formato si è dileguato in fretta». Il primo a prestare soccorso a Felice Orlando, che rimane a terra crivellato di colpi, è il fratello Antonino Orlando, che all’epoca aveva un negozio di frutta e verdura accanto alla macelleria Vetrano. Non capisce subito cosa è successo. Come gli altri sente esplodere quei colpi, ma li scambia lì per lì per petardi.

«Quel giorno io stavo lavorando al mio negozio, stavo dando delle cose a un cliente, ho sentito dei rumori che mi sembravano mortaretti, mi sono girato e quello a cui stavo dando la merce non c’era più, era scappato – racconta in aula -. Ho visto un’auto scura correre via e poi, girandomi, mio fratello a terra dentro al negozio. L’ho caricato subito in macchina e l’ho portato a villa Sofia, non so se fosse ancora vivo, non parlava. Lui aveva la sua vita e io la mia, non parlavamo molto, non so se avesse qualche motivo di preoccupazione prima dell’omicidio», rivela infine. Ma il primo a ripercorrere davanti ai giudici quel 17 novembre di vent’anni fa è un altro testimone diretto dell’omicidio, Salvatore Talamanca, all’epoca banconista alla macelleria Vetrano. «Anche quel giorno io ero dietro al mio bancone, davanti a me c’era Felice Orlando, che era arrivato da poco, mi aveva chiesto di affettargli un po’ di porchetta che si sarebbe portato via – ricorda -. Io ho sentito solamente i botti, tre-quattro, e poi mi sono abbassato sotto il banco, pensavo fossero petardi, mi sono spaventato».

Come gli altri, anche il dipendente non si rende subito conto che sta avvenendo un omicidio a sangue freddo. «Ho visto un uomo, era quasi davanti alla porta, ma da sotto il vetro del banco si vedevano le persone che andavano via, mi sono sembrate due». Pochi, circoscritti e traumatici i ricordi che è in grado di consegnare ai giudici oggi a distanza di quasi vent’anni da quel delitto. All’epoca, invece, alcune sue affermazioni furono più dettagliate. Parlò subito agli inquirenti di due uomini con cappellini in stoffa scuri e una visiera di colore scuro, di uno dei due ricordava i baffi, un’età approssimativa di 35 anni e un’altezza che non superava il metro e 65, era vestito di scuro. «Oggi non ricordo più queste cose, ma so che quando le ho dette sono stato sincero, quindi confermo tutto quello che ho dichiarato quel giorno – dice -. Mi ricordo ancora che usciti dalla macelleria sono scappati a piedi verso destra, rispetto al mio punto di vista. Io sono rimasto dietro al bancone, Orlando balbettava a terra, ma non parlava». Un momento frenetico, improvviso soprattutto, che si scatena alcuni istanti dopo l’uscita dell’ultimo cliente dalla macelleria. «Quando hanno sparato lui era proprio davanti a me, ma riuscivo a vedere anche l’ingresso, frontale ma sull’angolo. Lui non ha gridato, l’unico rumore è stato solo quello dei botti, non saprei dire in quanti hanno sparato, forse tutti e due perché ho sentito assai botti. Quel giorno non ci sarei neppure dovuto essere in macelleria, due giorni prima era morta mia madre, immaginate come stavo».

Silvia Buffa

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