Omicidio Falsomiele, sul banco la figlia degli imputati «Quel giorno tutto come sempre, non si parlò del delitto»

«Quello fu un pranzo normale, come tutti gli altri. Nessuno parlò di quello che era successo, non ne sapevamo molto. Tranne mio fratello, che per tornare a casa aveva trovato la strada chiusa e la polizia, con un vicino gli aveva accennato qualcosa». È posata ed estremamente tranquilla mentre risponde alle domande dell’avvocato della difesa Paolo Grillo. La donna, sentita questa mattina per la prima volta dai giudici della prima corte d’assise, è una dei tre figli di Adele Velardo e Carlo Gregoli, accusati di aver ucciso insieme il 3 marzo 2016 in via Falsomiele Vincenzo Bontà e Giuseppe Vela. Ad affrontare il processo però è rimasta solo la moglie, il marito si è tolto la vita l’estate scorsa mentre era rinchiuso al Pagliarelli. La donna avrebbe dovuto testimoniare, per sua esplicita richiesta, alla scorsa udienza, salvo poi fare dietrofront e rinunciare all’esame all’ultimo minuto. Oggi invece è toccato a sua figlia. La mattina del delitto lei è in casa, scende al piano di sotto per fare colazione e non vede nessuno: «Probabilmente mia madre era uscito e mio padre era in camera. Non siamo soliti avvisarci quando qualcuno esce, nemmeno io avviso loro quando esco di casa». Poi torna in camera, dove rimane a studiare. Riscenderà solo a pranzo, quando incontrerà anche i suoi genitori.

Quello dell’omicidio è un giorno come un altro, in caso Gregoli, a sentire il suo racconto. «Non è una strada trafficata, ma non si sente molto se si è chiusi in casa. Magari dal giardino fuori, ma dalla villetta no, infatti non abbiamo sentito nulla». Diverso invece il giorno in cui gli agenti bussano alla loro porta per la perquisizione. «C’eravamo tutti, eravamo al piano terra. C’erano almeno venti persone in casa, ma hanno parlato solo con i miei genitori – dice -. Mio padre si è diretto nella camera al piano di sotto in cui custodiva le armi, mia madre nelle altre stanze. A noi figli non hanno chiesto nulla, solo alcuni sacchetti in cui conservare alcuni abiti che intendevano portare via. E io diedi loro tre-quattro sacchetti della spesa conservati in cucina. Prendevano tutto quello che trovavano». Una circostanza che, ad ascoltare questa ricostruzione, sembra ambigua. Perché, visto che si trattava di una perquisizione, gli agenti non erano dotati di attrezzatture proprie più consone per sequestrare gli oggetti? La figlia insiste e ripete più volte questo particolare: «Ci chiesero dei sacchetti e io diedi quelli della spesa, avevamo solo quelli».

Di quei vestiti portati via quel giorno dalla sua villetta, poco lontano dal luogo del duplice omicidio, ne riconosce oggi in aula alcuni. Si tratta per lo più di giubbotti, giacche, pantaloni e stivali riconducibili ai genitori. «Ma anche io e mia sorella usavamo spesso gli abiti di mia madre, ci scambiavamo i vestiti, era normale. Alcuni vestiti li hanno presi dal cesto della biancheria in bagno, altri dall’attaccapanni all’ingresso». Delle vittime, poi, non sa quasi nulla. «Non li conoscevo, mai visti. Tranne Bontà, di lui avevo sentito il nome una volta, sapevo che aveva un pezzetto di terreno davanti casa nostra. Ma fisicamente non lo avevo mai visto». Ma la maggior parte delle domande vertono tutte su una circostanza: le armi possedute dalla famiglia e custodite nella villetta. «Mio padre era un cacciatore, un appassionato – racconta -. Sapevamo sempre con chi andava a cacciare e quei due nomi non li avevamo mai sentiti, non erano quindi dei suoi compagni. Lui andava a caccia quando si apriva la stagione. Ma quando la caccia era chiusa si dedicava comunque alle armi, le puliva oppure se le portava in montagna, dove allenava i cani. Praticamente le maneggiava sempre».

In casa, però, custoditi in una stanza blindata non ci sono solo i fucili da caccia. Ci sono anche svariate pistole, tutte regolarmente registrate. «Era un appassionato di armi in genere, indipendentemente dalla caccia – dice la figlia -. Mentre mia madre non era appassionata alla caccia, non ricordo quando prese il porto d’armi, da poco comunque». Per quasi due anni, però Carlo Gregoli quelle armi non le usa, non le tocca. Nemmeno una. «Dal 2013 all’inizio del 2015, circa. Mio padre soffriva di depressione, abbiamo capito che era malato perché passava intere notti senza riuscire a chiudere occhio, almeno per un mese è andato avanti così». Periodo in cui le armi, da caccia e non, restano sigillate nella stanza blindata, le chiavi le custodisce la moglie. «Nel periodo della malattia non andava nemmeno a lavoro, era certificato dal medico, stava a casa. Ha ripreso a maneggiare le armi solo quando si è ripreso del tutto».

Nessuno, in casa, ha la stessa passione per le armi che ha il padre. Nessuno dei figli, ad esempio, va mai con lui a qualche battuta di caccia. Quelle armi le vedono ogni tanto solo in caso, qualche volta le prendono, le imbracciano scariche, episodi di quei è rimasta traccia attraverso alcune foto postate su Facebook. Non sta bene neppure la madre, a quanto pare. Il medico la costringe a monitorare in maniera frequente la pressione, recandosi in farmacia e utilizzando il macchinario di precisione di cui sono dotate. «Spesso la accompagnavo io, la portavo in una farmacia vicino casa», spiega ancora la figlia. L’avvocato di parte civile Francesco Tinaglia vorrebbe chiedere di più alla ragazza, chiedere ad esempio il motivo di certe conversazioni intercettate fra i suoi genitori e se ci fosse, soprattutto, la paura da parte loro di essere ascoltati dagli agenti. Ma viene stoppato dalla difesa e dalla corte, non sono domande pertinenti con la teste.

«Non dobbiamo dire nulla di quello che abbiamo visto, non dobbiamo parlare assolutamente» diceva tuttavia Carlo Gregoli alla moglie, che era d’accordo: «Niente, nessuna parola, non mi convince». Frasi che meriterebbero un approfondimento. Ne è convinta almeno la parte civile: «Siamo di fronte a un delitto senza movente. A un imputato che si è suicidato. Mentre l’altra, che prima aveva chiesto di sottoporsi all’esame, poi si è tirata indietro. E poi queste conversazioni, da cui emerge la paura di essere intercettati. Tutte cose che contribuiscono a lumeggiare uno scenario preciso». 

Silvia Buffa

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