Omicidio Falsomiele, le parti civili puntano su ergastolo «In farmacia a misurare la pressione con l’arma carica?»

«Un’esecuzione premeditata». Non ha dubbi l’avvocato di parte civile Giovanni La Bua, che si è allineato al pubblico ministero, condividendo la richiesta di ergastolo per Adele Velardo. La donna è rimasta l’unica imputata per il duplice omicidio di Vincenzo Bontà e Giuseppe Vela, freddati in pieno giorno per strada il 3 marzo 2016 in via Falsomiele. Indagato insieme a lei, infatti, in un primo momento c’era anche il marito, Carlo Gregoli, che però si è tolto la vita in carcere a pochi mesi dall’arresto. Non siederà mai, lui, davanti ai giudici della seconda corte d’assise di Palermo, dove adesso il processo si avvia alle battute finali. «Dobbiamo chiederci: chi abbiamo di fronte?», torna a dire l’avvocato La Bua, che stamattina ha ripercorso tutte le fasi che hanno contraddistinto le indagini sul delitto. Dagli spostamenti dei due coniugi alle immagini riprese dalle telecamere della zona, dalle perquisizioni nella loro auto e nella loro casa fino al sequestro di abiti e armi da sparo. E poi la perizia balistica, i colloqui intercettati in carcere e le intercettazioni ambientali.

«Io esco alle 9 del mattino da casa con l’arma carica con me per andare in farmacia a farmi misurare la pressione. Come posso credere a questa versione? Questa è stata un’esecuzione premeditata – ribadisce – fatta repentinamente da tutti e due, nessuno di loro ha avuto un rinsavimento, un dubbio, un ripensamento. Fermo restando che quest’arma non poteva essere nemmeno portata in giro carica, ma sarebbe dovuta rimanere a casa». Non lascia fuori nessun passaggio, nella sua ricostruzione dei fatti di quel giorno. Compresi i frame ripresi dalle telecamere della zona, che collocano in uno spazio di pochi secondi l’omicidio delle due vittime. Un tempo talmente limitato che lascia presumere ad accusa e parti civili che gli assassini si siano trovati sul posto con l’arma, appunto, già carica. E la scena immaginata dall’avvocato La Bua sembra uscita da un film d’azione: «L’uomo scende dall’auto, spara ripetutamente, poi raccoglie alcuni bossoli per cercare di nascondere parte delle prove del suo coinvolgimento nell’omicidio e si rimette in macchina. Ripresa dalle telecamere, pochi secondi dopo, c’è sua moglie che si china verso il basso per nascondere la pistola. Ha concorso nell’esecuzione di quel delitto, non ha fermato il marito, non l’ha fatto riflettere».

Una ricostruzione che, secondo l’avvocato, spiegherebbe anche la presenza delle circa 300 particelle di polvere da sparo ritrovati in più punti della loro auto, dal volante al cambio allo sportello del guidatore. Tracce che, nel tempo, svaniscono. Ma che all’epoca furono rilevate a pochi giorni dall’omicidio. «Quelle tracce provano che è lì che è stata usata l’arma». E poi la ferma volontà di entrambi e, ancora oggi, della donna rimasta unica imputata di non parlare dei fatti di quel giorno. Non ne parlano in casa fra loro, non ne parlano nemmeno in carcere. «Le prove in questo processo sono inoppugnabili. Questa gente non andava a sparare da tempo pur avendo il brevetto. E la stagione di caccia era chiusa in quel periodo. L’alibi non regge. Durante l’orario del delitto si colloca l’imputata sul luogo del delitto stesso, come se ne esce da questa cosa?». E poi tira in ballo il movente, un aspetto rimasto nebuloso durante l’intero processo. «Si è detto che manca. Ma cosa ci interessa oggi? – domanda il legale -. Il movente lo abbiamo trovato nell’atteggiamento non collaborativo dei due imputati, davanti al loro silenzio disarmante, che non lascia scampo alle loro responsabilità. Mentre qua c’è una famiglia distrutta, dei figli che non si fanno una ragione di quanto successo, una moglie che non esce più di casa perché ha paura».

È d’accordo anche l’avvocato Ennio Tinaglia. «E se loro non c’entrassero nulla? Se avessero solo assistito a un omicidio commesso da altri e avessero scelto il silenzio perché minacciati? Io mi sono posto queste domande, ho messo in conto anche questa ipotesi – spiega alla corte -. Ma è un tema che in realtà esce fuori pochi giorni dopo, quando i due affrontano l’interrogatorio di garanzia a seguito dell’ordinanza di custodia cautelare». E allude a un’intercettazione ambientale in cui la sorella dell’imputata discute con qualcuno del delitto e dell’indagine a carico dei Gregoli. «Loro se ne escono solo in un modo, dicendo che hanno visto quest’auto passare, sono scesi due, hanno sparato e se ne sono andati. Testimoni oculari, e poi spaventati sono tornati a casa e non sono usciti più». Pochi giorni dopo quelle frasi, infatti, i due coniugi, registrati nelle sale colloquio del Pagliarelli, mentre prima fanno di tutto per non parlare mai dell’omicidio, poi sembrano quasi ostentare questa versione.

«Quindi dobbiamo stare zitti?», chiede Velardo al marito. E lui: «Sì, di quello che abbiamo visto non dobbiamo dire niente, neanche una parola». Un’imbeccata, secondo l’avvocato. «Sapevano di essere ascoltati e intercettati, una polpetta avvelenata cui abbiamo abboccato tutti, io per primo. Il loro silenzio, in questo caso, perde il carattere di neutralità». C’è poi un’altra ipotesi presa in considerazione dall’avvocato. E se Adele Velardo fosse stata una spettatrice passiva del delitto commesso dal marito? E avesse quindi taciuto, poi, per proteggerlo? «Forse. Ma perché continuare a non dire niente anche dopo la sua morte? Per proteggerne il ricordo che ne avevano le figlie? Gli stessi, però, cresciuti col culto delle armi in casa e del padre-macho. Neppure questa tesi ha resistito all’assalto delle prove». Non ci sono, insomma, per le parti civili ricostruzioni alternative a quella messa in piedi dall’accusa. «Questo è stato un processo sostanzialmente disumanizzato, celebrato all’insegna dei tecnicismi, non c’è stato il minimo spazio per l’aspetto umano – dice, infine -. I soli frammenti di umanità sono nascosti tra le pieghe delle intercettazioni, e non consentono un allineamento a questa propensione di non parlare per salvare il ricordo del padre». E anche lui riflette sul movente mancante: «Le figure di Gregoli e Velardo sono inquietanti, perché glaciali, inespressivi. Sono usciti da casa per uccidere? E chi, per l’esattezza? Queste sono tutte ipotesi, congetture». Mercoledì toccherà agli avvocati della difesa procedere con le loro conclusioni. 

Silvia Buffa

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