Nuovo incarico a Messina per il pm Ardita «Minacce dalla mafia? Oggi non siamo soli»

E’ di ieri la notizia della nuova verità sulla strage di via d’Amelio: il giudice Paolo Borsellino fu eliminato perché d’ostacolo alla trattativa tra mafia e Stato. Di questa trattativa parla l’ultimo libro del pm catanese Sebastiano Ardita. Dopo quasi dieci anni a capo della Direzione detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il magistrato catanese è stato da poco nominato procuratore aggiunto a Messina. Con i suoi 46 anni è il più giovane a ricoprire questo ruolo in Italia. Giovane ma con una lunga esperienza in magistratura, dove ha cominciato all’età di 25 anni. Alla nuova nomina è seguita, la settimana scorsa, la vittoria con Magistratura indipendente alle elezioni per il rinnovo del comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, con la conquista di 86 preferenze. Tra un impegno e l’altro lo abbiamo intervistato. Ecco una trascrizione di alcune parti della nostra conversazione e i file audio integrali.

Di recente ha presentato a Catania il suo libro Ricatto allo Stato. La sua tesi è chiara. La cosiddetta trattativa tra Stato e mafia è nata perché Cosa Nostra ha cercato con tutti i mezzi di eliminare il 41 bis.
«Fino agli anni ‘90 i mafiosi governavano anche dalla loro cella, da dove venivano commissionati anche omicidi. Il 41bis fu visto come un oltraggio al potere anche quello di imporsi sulle istituzioni. Cosa Nostra contro il carcere duro prima ha provato con le bombe, poi ha tirato fuori i suoi argomenti di influenza economica, politica, di forza militare. Nel frattempo il 41 bis è cambiato ed è diventato una forma di prevenzione contro la mafia. Ma ci sono dei rischi».

Ascolta l’analisi sull’evoluzione del 41bis

Lei ha lasciato a dicembre il suo incarico di capo della Direzione generale detenuti e trattamento del Dap, dopo quasi dieci anni. In questi anni tante volte si è sentito e si sente ancora parlare delle condizioni terribili delle carceri sia per i reclusi che per gli addetti ai lavori. Qual è, a suo avviso, il problema più grave e qual è il passo che non è stato ancora fatto o su cui si dovrebbe insistere per risolverlo?
«Il carcere è la fotografia di un sistema penale che non funziona. Il problema delle condizioni di vita dei reclusi è collegato anche alla quantità di detenzione che viene distribuita – in modo non equo dal mio punto di vista – tra autori di fatti gravi e autori di illeciti da casellario. La situazione si è aggravata con indulti, conversione di pene lunghe in arresti domiciliari, con cui si sono fatti uscire i detenuti con reati gravi. È il frutto di un sistema penale assolutamente zoppo, per molti versi solo formale e non sostanziale, perché non genera condanne. Le produce solo per chi non si sa difendere. E lascia andare i più pericolosi, quelli su cui il carcere come rieducazione servirebbe. Guardare al problema carcere senza riformare il sistema della giustizia è come curare con l’aspirina la febbre di un malato di cancro».

Ascolta il commento sul sistema penale italiano e il problema delle carceri

Al nuovo incarico si aggiunge la vittoria con Magistratura indipendente alle recentissime elezioni per il rinnovo del comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. Cosa prevede il suo impegno nell’Anm?
«Io credo che i magistrati debbano svolgere anche un’attività importante sul piano associativo e sul piano parasindacale. Che debbano cioè far presente le condizioni di lavoro di difficoltà in cui molti operano. Il sistema penale così complesso e ampio finisce per diventare anche una forma di delegittimazione del lavoro dei magistrati. Perché quando si deve affrontare con categoria di obbligatorietà dell’azione penale una quantità sconfinata di reati e le forze non sono sufficienti per approfondire questi fatti si finisce per svilire il lavoro dei magistrati. Così come lo sviliscono certi provvedimenti di riduzione della pena e si fanno celebrare processi che prendono un tempo importante per poi concludersi con sentenze di indulto».

Ascolta le dichiarazioni sulle difficoltà del lavoro di magistrato

Ora la attende un incarico non facile a Messina, definita un “verminaio” per gli intrecci tra istituzioni, politica, affari e criminalità. Lei è il più giovane magistrato in Italia insediato nel ruolo di procuratore aggiunto. Ha cominciato a soli 25 anni ed ha molta esperienza. In tutti questi anni per il suo lavoro è stato minacciato ed ha subito anche un attentato nel 2004. Prova mai paura? E cos’è più forte della paura e delle minacce?
«La paura è un segnale dell’attenzione con cui si devono affrontare le cose. Il coraggio è la facoltà di gestire la paura. Rispetto agli anni ‘90 oggi siamo in tanti a subire minacce e intimidazioni e non siamo soli. Siamo protetti dallo Stato e da tanti professionisti seri che fanno informazione. I pericoli, che fanno parte un po’ del nostro lavoro, non vanno sottovalutati ma metabolizzati. Se ti esponi poi non puoi tirarti indietro perché smentiresti il senso della tua attività».

Ascolta le affermazioni su come affronta i rischi del mestiere

 

[Foto di mcalamelli]

Agata Pasqualino

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