«Ci occupiamo di questo posto dal 1997 e, in vent’anni d’attività, nessuno ci aveva mai fatto richieste estorsive o minacciato. Fra noi tre proprietari non abbiamo mai concordato un piano per situazioni come quella, abbiamo sempre dato per scontato che saremmo rimasti dalla parte del giusto e che avremmo denunciato». Quella sera del gennaio scorso sembra somigliare a tante altre, se non fosse per la deviazione improvvisa che prende la storia. «Sono le venti meno qualcosa, è quasi ora di cena, il locale inizia a riempirsi», ricorda uno dei titolari di un noto ristorante palermitano in zona San Lorenzo. Tra gli avventori ci sono anche due uomini, due facce nuove. Le telecamere esterne li riprendono per circa un quarto d’ora fuori dal locale, prima che si decidano a entrare. Ordinano una margherita d’asporto. Aspettano. La pizza è pronta e loro escono, non prima di aver chiesto a uno dei proprietari di seguirli fuori.
«Cercati un amico e mettiti a posto». Sono queste le parole che rompono la farsa. «Avanti dai, che tu sei del settore e hai capito benissimo, sai come vanno queste cose». Nei racconti del titolare, l’uomo che parla ha uno sguardo sicuro e gli poggia una mano sulla spalla. Ma è qui che inizia una storia diversa. «Quindi tu nel 2016 mi stai chiedendo di farti avere mensilmente o per le feste un tot, così? È questo il punto? Te lo chiedo perché non vorrei che un domani si capisse una cosa per un’altra». «Sì» è la risposta. Il proprietario torna dentro al locale, chiama uno dei soci. Insieme escono di nuovo. «Hanno mantenuto entrambi una grande lucidità e sono riusciti a non venire alle mani. Se si fosse scatenata una rissa questi due uomini poi avrebbero potuto rivalersi chissà su cosa», spiega il terzo socio, che quella sera arriva più tardi.
Il rifiuto dei proprietari a questo punto è evidente. I due uomini fanno dietrofront e si rifugiano nella loro auto posteggiata appena fuori dal locale. «La macchina è messa a incastro, ce n’è un’altra davanti e un’altra ancora la blocca dietro, sono incolonnate. Significa che questi sono arrivati al locale con la certezza di non dover ricorrere a una fuga improvvisa», racconta il socio che per primo comprende la situazione. Viene allertata la polizia, che arriva nel giro di pochi minuti. Tempo che ai proprietari però sembra non passare mai. Intanto anche alcuni amici e avventori hanno capito, si fanno avanti, circondano l’auto, con i due ancora barricati dentro, mentre uno dei proprietari la strattona.
«Siamo sicuri che il nostro sangue freddo sia stato importante, ma sappiamo anche che li avrebbero arrestati comunque. Erano tenuti sotto controllo dalla polizia per lo stesso reato – continua il proprietario -. Sapevano benissimo chi eravamo, ci avevano studiati e sapevano che dietro di noi non c’è mai stato nessuno». L’incontro con il comitato di Addiopizzo inizia da questo momento. Dalla denuncia e dall’arresto. Da quell’atto che vent’anni prima sarebbe stato impensabile o, nella migliore delle ipotesi, isolato. E di fatto il nome di questo stesso locale viene ritrovato, insieme a molti altri, annotato fra le pagine di un libro mastro della mafia.
È il dicembre 1989 e a dimenticare il documento dentro al proprio covo in via D’Amelio è Antonino Madonia, boss di Resuttana. Anni diversi, proprietari del ristorante diversi, scelte diverse. «A noi non era mai capitato – spiegano in coro gli attuali soci -. E il nome di chi li ha mandati non lo abbiamo mai saputo». Cosa aspettarsi adesso? «Al massimo fra tre anni saranno fuori. Speriamo che non tornino più», dice serio uno dei tre. «All’inizio avevo paura, toglievo il casco dalla testa solo una volta entrato in casa – aggiunge un altro -. Solo col tempo si impara a metabolizzare tutto». Un ritorno alla normalità avvenuto anche grazie al sostegno di amici, conoscenti e clienti. «Rispetto a tanti anni fa oggi molta gente è consapevole. Un tempo ci avrebbero risposto cazzi tuoi, cambiando strada. Mentre oggi ci permettono di vivere senza avere paura di niente».
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