Naufragio, 800 corpi bloccati nel relitto Il portellone principale trovato sbarrato

Per dare l’idea di quanta gente c’era sul barcone affondato lo scorso 18 aprile a largo delle coste libiche basta guardare una foto del 2014. È un peschereccio di dimensioni simili, pieno in ogni angolo. A bordo c’erano 887 persone. E le immagini girate dal mini-sommergibile della Marina militare parlano chiaro: quasi 800 i corpi che si sono inabissati con l’imbarcazione, inquadrati dalle telecamere degli investigatori a ogni livello della nave. E se nel relitto — che si trovava a 370 metri di profondità — un portellone era aperto, quello principale, invece, sulla parte posteriore della nave, risultava chiuso. È ancora da chiarire se a bloccarlo sia stata la violenza del naufragio o una volontà precisa degli scafisti. «Ovviamente, capire questo elemento cambia le cose dal punto di vista dei profili criminali», afferma il reggente della procura di Catania Giovanni Salvi.

Nel frattempo, gli incidenti probatori sono quasi terminati. E sono nella fase conclusiva anche le indagini. Questione di giorni, forse di poche settimane. «Per punire i responsabili bisogna accertare i reati», prosegue Salvi. I segni nella parte anteriore dello scafo e sulla fiancata sinistra, secondo gli inquirenti, sono conseguenza dell’impatto con il King Jacob, il mercantile portoghese che per primo ha prestato soccorso al natante carico di migranti. «Non ci sono squarci nella struttura, quindi escludiamo che il peschereccio abbia imbarcato acqua. Più plausibilmente lo scontro con l’altra barca e l’improvviso movimento delle persone, spaventate, ha causato il ribaltamento del mezzo». Ancora da valutare i tempi delle operazioni di recupero del relitto e delle salme. Ma, dopo giorni trascorsi in mare, è difficile che l’autopsia sui cadaveri evidenzi eventuali violenze subite prima di partire e durante la traversataA raccontarle erano stati i sopravvissuti già poche ore dopo essere sbarcati al porto di Catania. Sui loro corpi e su quelli dei morti già recuperati e che si trovano a Malta non sono stati trovati segni di percosse. 

Proseguono le indagini per ricostruire la struttura dell’organizzazione criminale che gestisce i viaggi verso l’Italia. Alcuni testimoni avevano raccontato dell’esistenza di un «grande direttore», un misterioso libico chiamato Jafar col quale uno dei due scafisti arrestati, il tunisino Mohammed Alì Malek, si sarebbe tenuto in contatto per tutta la durata del viaggio tramite un telefono satellitare. Ad avvalorare la tesi della presenza di un capo che dirigeva le operazioni a distanza anche i racconti degli altri superstiti, sentiti in questi giorni dagli investigatori. Un punto, questo, che rimane delicato e che è tutt’ora al vaglio degli inquirenti.

Così come rimane da accertare l’identità di Alì Malek. Intervistati dall’agenzia di stampa Reuters, alcuni sedicenti familiari hanno raccontato che l’uomo avrebbe fornito un’identità falsa. E che il suo vero nome sarebbe Nourredine Mahjoub, pescatore a Chebba. Il presunto fratello, Makrem, ha detto ai giornalisti di aver sentito per telefono il parente, il quale gli avrebbe raccontato di essere stato minacciato con delle armi. «Lo hanno portato alla barca — ha detto l’uomo — Quando ha chiamato, era in stato di shock e piangeva». Su questa versione dei fatti, però, il procuratore preferisce non rilasciare alcun commento. 

Luisa Santangelo

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