«La morte di Riina allontana la verità e porta con sé segreti inquietanti». Così Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo, trucidato assieme ai cinque agenti della scorta nella strage di via D’Amelio il 19 luglio del 1992, commenta la morte del feroce boss di Corleone Totò Riina. Che ora apre nuovi scenari, sia rispetto alla possibilità di far ancora luce sulla lunga scia di delitti e stragi riconducibili al capo di Cosa nostra, sia su come cambieranno gli equilibri al suo interno. «Anche se dubito che un criminale della caratura di Riina potesse aiutare a fare chiarezza – ha proseguito – ormai è impossibile che si giunga a una verità sulle stragi: i personaggi, anche appartenuti alle istituzioni deviate che con questi criminali hanno intrattenuto la cosiddetta trattativa, che ha comportato anche il sacrificio di mio fratello, saranno ben contenti dell’impossibilità di Riina di parlare. Avevano già provveduto facendo facendo sparire la sua cassaforte, ponendo un ulteriore sigillo sulla verità».
Sull’ipotesi che la morte del capo dei capi possa rappresentare un punto di svolta per l’associazione criminale segnandone il declino, è scettico: «La mafia scomparire? Mi sembra impossibile, è sempre sopravvissuta ai suoi capi. Dipende anche se ci riferiamo alla mafia armata o quella che ha consentito la sua sopravvivenza. Per me, la mafia vera è quella dei collusi e dei corrotti, quel sottobanco di cultura anche nelle istituzioni che grazie a Cosa nostra ha potuto vivere e sopravvivere». Dopo la sua morte rimane aperta una ferita, quella della morte del fratello, che Borsellino non dimenticherà mai: «Perdonare Riina? È una domanda di cui non capisco il significato davanti a simili crimini».
A fargli eco, c’è Vincenzo Agostino, il papà di Nino, il poliziotto massacrato assieme alla moglie il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini: «Evidentemente con Riina è morto il braccio armato di Cosa nostra, ma le menti raffinatissime dove sono? A uno a uno stanno sparendo i vari mafiosi, ma gli intoccabili rimangono sempre al buio e hanno tirato un sospiro di sollievo visto che non possono più parlare. Riina era una pedina comandata dall’alto, dobbiamo scoprire ancora chi si nasconde dietro le stragi. Adesso la mafia non è più quella di una volta, sono i colletti bianchi che vanno al potere». Anche per Vincenzo la parola perdono suona quasi come un’eresia: «Non possiamo perdonare, non abbiamo questa delega. Gli unici che possono farlo sono le stesse vittime, che non ci sono più, e chi dovrà giudicare questi assassini. Ma per noi familiari, la ferità non si chiuderà mai, specialmente per chi ancora cerca la verità».
Ancora più duro è Dario Montana, il figlio di Beppe, il commissario della squadra mobile di Palermo eliminato da Cosa nostra a Santa Flavia il 28 luglio del 1985. «La sua morte mi lascia del tutto indifferente e, come familiare, non cambia assolutamente nulla. Non provo nessun sentimento né di condanna né di piacere. Il perdono? È una categoria che non mi appartiene e, prima di ogni cosa, avrebbe dovuto chiederlo: stiamo parlando del nulla».
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