«C’è l’immagine stereotipata dell’operatore di call center come un ragazzino, diciottenne, quello degli spot pubblicitari. In realtà non è così». Filippo, 42 anni, lavora in una delle più grandi aziende del settore da nove anni e ora il suo impiego è a rischio. Almaviva, impresa leader dei call center, vive una nuova crisi legata a problemi mai realmente affrontati dalla politica, fatti di delocalizzazioni e aste al massimo ribasso. Un’attività con un bilancio che segna utili positivi, ben radicata sul territorio, con impiegati dall’età media di circa 40 anni. La cronaca delle ultime vertenze sindacali porta a un paragone immediato con Micron, l’impresa vittima di tagli e trasferimenti imposti dall’alto e con spiegazioni da parte dei vertici industriali assenti. Ma non lontano dalla zona industriale di Catania c’è un altro polo commerciale, quello di Misterbianco, che in un solo stabilimento dà lavoro a 1800 persone.
I dipendenti si sono riuniti ieri in una protesta davanti ai cancelli dell’azienda per dare voce alla rabbia, ma anche ai timori di rimanere esclusi dal mercato del lavoro. «Non siamo dei ragazzini che improvvisano un lavoretto – sostiene Filippo – Siamo professionisti che non vengono trattati come tali, perché il nostro viene considerato un lavoro secondario, di poca importanza, come fossimo parcheggiatori abusivi». A lui fa eco Natale Falà, impiegato a Misterbianco da 15 anni e rsu Cgil. «Non siamo universitari, giovani in cerca della paghetta mensile. Siamo lavoratori con un contratto a tempo indeterminato – sbotta – Qua c’è gente sposata, con figli, mutui».
Il nuovo allarme è partito una ventina di giorni fa. «L’8 aprile l’azienda ci ha convocati a Roma per dirci che il nostro impiego è a rischio e che l’azienda, se continueranno così le cose, avrà pochi mesi di vita». Difficile sperare in una soluzione favorevole: «Almaviva è in crisi e andremo probabilmente verso la chiusura», dice Falà senza mezzi termini. «Le grandi committenti, le multinazionali della telefonia e i mass media, hanno capito il gioco delle delocalizzazioni verso l’estero». Il nemico viene da Albania, Romania, Croazia, «dove il costo del lavoro è un terzo rispetto al nostro». Per le imprese che vogliono partecipare alle gare è impossibile concorrere con tariffe stracciate, «prezzi più bassi del costo orario del lavoratore. Questo fa sì che tutti vadano verso l’estero».
Almaviva cura le comunicazioni dei grandi marchi dell’imprenditoria, anche a livello mondiale: Enel, Alitalia, Sky, Mediaset, Vodafone, Tim, Wind. «Ma soffriamo un calo dei volumi che è ormai preponderante», precisa Natale Falà. Da un anno sono scattati i contratti di solidarietà. E se l’orario di lavoro è già ridotto, «sei un part-time del part-time». La lotta dei lavoratori non è una vertenza contro l’azienda. Ma – come sostengono alcuni manifestanti – è anche grazie all’introduzione dei primi ammortizzatori sociali che il bilancio è in attivo, con gli utili aumentati rispetto al 2012 e nonostante la crisi.
«Quel che più ci addolora è che anche la pubblica amministrazione, Inps, Inpdap, Comune di Roma e Milano, hanno servizi di call center e fanno gare che non coprono il costo orario del lavoratore. Un invito implicito alla delocalizzazione», racconta Alberto. «Se lo fa la pubblica amministrazione, che mette noi in cassa integrazione, lo Stato finisce per pagare quella commessa due-tre volte e magari premia il funzionario che è riuscito a spuntare il prezzo migliore. Un controsenso pazzesco». Impiegato Almaviva dal 2001, dal 2007 è riuscito a ottenere un contratto a tempo indeterminato. Tra una decina di giorni diventerà papà. «Se Almaviva dovesse chiudere? È una situazione a cui dobbiamo iniziare a pensare. Ma faremo di tutto affinché non succeda». Anche se la concorrenza è spietata e Alberto – ben cosciente – snocciola i dati quasi con determinazione. «Soltanto in Albania, tra Tirana, Valona e Pristina, ci sono settemila postazioni: ci possono lavorare in una giornata almeno 21mila persone. In Romania ce ne sono altrettante, così come in Croazia».
I lavoratori davanti al cancello raccontano storie di vita quotidiana. La gioia per un posto di lavoro, la speranza di ottenere l’indipendenza, la paura di perdere tutto. «Sono partito dai contratti a progetto, per poi passare a quelli a tempo determinato e infine a tempo indeterminato – elenca Filippo – Per poi scoprire che, alla fine, non sono uscito dal precariato. È soltanto un po’ meno palese, ma quello spettro lo sentiamo». La sua situazione familiare, poi, è doppiamente complicata. «Vivo in un nucleo familiare composto da mia madre, pensionata, e da me e mia sorella che lavora qui, è una mia collega». Nel caso in cui l’azienda dovesse realmente chiudere i battenti, «sarebbe drammatico, perché sono due stipendi che verrebbero a mancare». Per ora la vita da call center permette di affrontare la quotidianità. «Ci ritroviamo a essere l’uno la stampella dell’altra, abbiamo creato un nucleo unendo le forze, perché nessuno di noi riuscirebbe con le proprie forze a condurre una vita indipendente».
Le prossime azioni sindacali faranno convergere i rappresentanti delle sedi di Palermo, Napoli, Roma, Rende e Milano verso la capitale. Centrale, spiegano a più voci i sindacalisti, è attuare un intervento normativo per far sì che qualora non venissero salvaguardati i diritti dei lavoratori, si perdano le autorizzazioni concesse. «È lì che si deve intervenire», è la tesi. Oltre a far rispettare norme importanti, come l’impossibilità di delocalizzare senza creare esuberi sul territorio nazionale, oppure imporre il rispetto delle normative sulla privacy.
Ad aumentare la rabbia dei dipendenti è la certezza di svolgere al meglio le proprie mansioni. «Noi forniamo un servizio di qualità, le committenti che ci monitorano lo appurano. E nonostante questo rischiamo di perdere il nostro lavoro che facciamo bene», si rammarica Filippo. «Viviamo con una spada di Damocle sulla testa – sottolinea – La nostra professione ci impone di lavorare con quello che viene chiamato il sorriso telefonico, quindi trasmettere al cliente una condizione morale che spesso non abbiamo». E, a fine giornata, l’amarezza è tanta. «Ci rendiamo conto che serve a poco: non è la qualità che ci fa perdere o tenere il nostro posto di lavoro».
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