Mineo, la protesta dei migranti fuori dal Cara L’alternativa: 70 piccoli centri in Provincia

Il Cara di Mineo è una polveriera. Dopo gli scontri di lunedì tra un ristretto gruppo di migranti e le forze ell’ordine, ieri la protesta si è allargata, coinvolgendo circa 150 eritrei e arrivando oltre i cancelli del centro. E’ iniziato tutto intorno alle 12.30 quando il nutrito gruppo, quasi tutti originari del Corno d’Africa, è uscito bloccando con grosse pietre la rotonda che dalla statale 417 permette l’accesso al Cara. Quindi, esasperati dai ritardi e convinti di subire una disparità di trattamento dalle commissioni rispetto ai migranti di altre nazionalità, hanno marciato in direzione di Catania, paralizzando il traffico dei mezzi sulla statatale, che è stata chiusa per diverse ore in entrambi i sensi di marcia. Hanno percorso più di dieci chilometri, fermandosi al cavalcavia detto ponte dei monaci, al bivio per Ramacca e Palagonia e lasciandosi dietro pietre e sbarre. Qui sono rimasti per ore, scortati da decine tra carabinieri, poliziotti e finanzieri. Ma in serata il gruppo è tornato al centro, dove non tutti i migranti vedono di buon occhio queste proteste plateali.

Divisioni tra nazionalità e gruppi etnici, ma soprattutto le infinite attese per sapere se la richiesta di asilo o di protezione umanitaria è stata accettata. Sono queste le cause delle rivolte. Le recenti proteste hanno avuto come protagonisti soprattutto eritrei ed etiopi. Non una casualità perché nelle ultime settimane molti di loro hanno ricevuto un permesso umanitario di un anno. Un periodo più breve rispetto ai tre anni (protezione sussidiaria, cioè quando esistono gravi rischi di danno alla persona in caso di ritorno in patria) o ai cinque anni (permesso di asilo politico) che solitamente vengono concessi ai migranti provenienti dal Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia e Somalia). Senza dimenticare un’altra variabile fondamentale: il passato di ogni individuo. Una disparità vissuta come una frustrante ingiustizia. Nell’ultimo periodo, invece, molti sono stati i permessi della stessa durata (un anno). Un cambio di rotta da parte della commissione che sembrerebbe tenere in minore considerazione la storia personale di ciascun migrante.

Ma al Cara di Mineo è stata una settimana di festa e di incontri, oltre che di proteste. L’occasione per parlare proprio di queste problematiche. Il ritmo delle percussioni africane suonate da alcuni migranti senegalesi, sullo sfondo di un emblematico arcobaleno in cielo, ha accolto i manifestanti riunitisi martedì, nonostante il freddo gelido, di fronte ai cancelli del Cara di Mineo per celebrare la seconda giornata d’azione globale contro il razzismo. Un incontro interetnico – organizzato dalla Rete Antirazzista catanese insieme all’associazione Astra-Caltagirone, al comitato Calatino solidale di Mineo e ai comitati No Muos di Caltagirone e Catania – in ricordo del venticinquenne nigeriano Gibson Desmond travolto da un’automobile, nei pressi del villaggio degli aranci, lo scorso 27 novembre. «Chiediamo la chiusura del mega Cara della vergogna – dicono gli attivisti – E facciamo appello ai migranti e a tutte le realtà solidali a costruire insieme un percorso di solidarietà e di lotta per i diritti di cittadinanza e di asilo».

«Le politiche segregazioniste, attraverso il laboratorio Cara di Mineo, sono state estese anche ai richiedenti asilo – sostiene Alfonso Di Stefano, della Rete antirazzista catanese e attivista No Muos – E’ una vergogna che gli immigrati vengano semi-detenuti per oltre un anno, considerato che per legge, dopo 35 giorni avrebbero diritto ad un permesso di soggiorno». La struttura del villaggio degli aranci ospiterebbe attualmente più di 2700 immigrati – circa il 40 per cento in più della capacità d’accoglienza massima stimata – la gran parte in attesa da più di un anno di veder riconosciuto l’asilo politico. «Una situazione che va verificata con un’ispezione perché, se i numeri fossero confermati, rischia di esplodere», commenta il giornalista e militante antimilitarista Antonio Mazzeo. A darne un anticipo, le otto manifestazioni di protesta dall’inizio dell’anno, i numerosi tentativi di suicidio e da ultimo, le rivolte di questa settimana.

Per il prossimo 31 dicembre era fissata intanto la scadenza dello stato di emergenza umanitaria, conseguente ai i flussi migratori provenienti dal Nord Africa, proclamato con decreto del Consiglio dei ministri nel lontano febbraio del 2011. Il termine è stato prorogato proprio in questi giorni fino al 31 marzo del 2013. Ma per gli attivisti, come chiarito nel corso dell’incontro, il centro di Mineo va chiuso. L’alternativa proposta consiste nell’attuazione di progetti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che permettono, «con la metà del denaro pubblico dilapidato, di accogliere i migranti in piccoli e medi paesi, favorendo il loro progressivo inserimento sociale e lavorativo», spiega Gemma Marino, presidente dell’associazione Astra e consigliera comunale Sel di Caltagirone.

Una soluzione basata sul successo dell’esperienza di Riace, in Calabria, sposata ufficialmente nelle scorse settimane anche dal sindaco di Palagonia Valerio Marletta. «Solo nella provincia di Catania, con cinquantotto comuni, si potrebbero realizzare altrettanti Sprar con massimo venti ospiti ciascuno – sostiene il primo citadino in una nota ufficiale – Progetti che, dove realizzati, hanno dato testimonianza che, quando si pensa veramente di voler affrontare un fenomeno strutturale, si possono raggiungere ottimi risultati». In base ai calcoli, l’attuale costo del Cara – dedotto un risparmio del 10 per cento – potrebbe essere ripartito in 60/70 progetti Sprar da mettere a bando. Il risultato sarebbe un aumento dei posti di lavoro per gli operatori sociali, ma soprattutto un effettivo percorso di integrazione dei richiedenti asilo nei territori.

Eppure c’è chi a questi progetti alternativi di reale accoglienza sembra opporsi, facendo leva sul fattore economico e occupazionale. Per il comitato Pro Cara – «che si ostina a voler restare anonimo», sottolinea Leone Venticinque del comitato Calatino Solidale – il villaggio di contrada Cucinella rappresenterebbe «la più grande azienda del territorio» e una sua eventuale chiusura provocherebbe addirittura «il default economico dell’intera area». «E’ in atto un tentativo di trasformare la questione in un problema di posti di lavoro», commenta Venticinque. «Nei fatti, la verità è che questo centro è un business sulla pelle dei disperati per assunzioni clientelari – conclude Di Stefano – Con tutto l’interesse a parcheggiare a tempo indeterminato gli immigrati nella struttura».

[Video della protesta di Leone Venticinque]

Salvo Catalano

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