«Accusa ridicola, non sono chi dite voi. Io prima stavo ad Asmara e non sapevo niente di queste cose», sono le prime parole pronunciate dal giovane estradato lo scorso 7 giugno in Italia e ora detenuto al Pagliarelli di Palermo, che sostiene di chiamarsi Tesfamarian Mered e di non essere, quindi, Yedhego Medhane Mered, ritenuto dalla Procura uno dei principali capi del traffico internazionale di esseri umani dall’Africa. Durante l’udienza di questa mattina, l’accusa – rappresentata dai pm Geri Ferrara e Claudio Camilleri – ha consegnato alla giudice Alessia Geraci l’ampio materiale documentale messo insieme dopo l’indagine Glauco II. Si va da una notazione della polizia giudiziaria che riassume i capi d’accusa rivolti contro l’indagato ai file nel cellulare che l’uomo aveva con sé al momento dell’arresto in Africa.
L’accusa ricostruisce dettagliatamente le fasi salienti dell’indagine. Spiega come l’attenzione si sia concentrata su Yedhego Medhane Mered fra il 2014 e il 2015, in seguito a intercettazioni telefoniche, dalle quali si evince che il sospettato aveva diverse relazioni sentimentali. È una sola, però, la donna che interessa ai magistrati: Lidia Tesco. Residente in Svezia, sarebbe madre di un figlio avuto con un eritreo di 35 anni di nome Medhane. In perfetta corrispondenza, per nome ed età, con la persona ricercata. La polizia svedese ha fornito ai magistrati di Palermo una serie di utenze telefoniche che mettono in evidenza i frequenti contatti tra lei e l’uomo. Fra queste, ci sarebbe anche un numero usato per creare un profilo Facebook a nome di Medhane Medha. Da questa utenza sarebbero partite conversazioni proprio sul traffico di migranti da spedire in Europa e a parlare, secondo le interpreti, sarebbe un uomo con la stessa voce di Yedhego Medhane Mered.
Tracciato dagli investigatori, risulta che il profilo sia sempre stato usato dal Sudan. Secondo l’imputato, si tratterebbe della propria pagina Facebook, ma l’uomo raccontava di essersi mosso tra Eritrea ed Etiopia. I magistrati sono riusciti a risalire anche ai messaggi Viber che erano stati cancellati e che alludevano al traffico di migranti dalla Libia. In uno, ad esempio, un certo Zemes, rivolgendosi all’interlocutore come «capo», chiedeva come mettersi in contatto con Ermias Ghermay, padrino al vertice dell’attività criminale e attualmente latitante. Dal canto suo, l’imputato continua a negare fortemente di conoscere la donna e il suo legale, Michele Calantropo, racconta di una conversazione Facebook fra i due, del 18 ottobre 2015, in cui lei scrive: «Io non ti conosco, non ci siamo mai visti». Ma sul cellulare trovato addosso all’imputato ci sarebbero delle foto di Lidia Tesco e del bambino. In questo quadro si inserisce anche la testimonianza del collaboratore di giustizia eritreo Nuredin Wehabrebi Atta, che avrebbe per ben due volte – nel 2015 e di recente – smentito che il superlatitante ricercato dalla Procura corrisponda all’iniziale foto divulgata, che secondo lui mostrerebbe Abdega Asghedom.
Ad aumentare le convinzioni dei pm anche il fatto che l’imputato, al momento dell’arresto, avrebbe dichiarato un’ulteriore identità – e cioè Medhane Testa Miriad – rispetto a quella di oggi. Nonché l’ammissione, ritrattata dopo l’estradizione, di aver contribuito a far scappare alcune persone dalla Libia. A complicare la sua posizione sarebbero anche i fogli di carta sequestrati al momento dell’arresto, dai quali risulterebbero dei contatti con il sudanese Salomon, col quale Yedhego Medhane Mered avrebbe scambiato delle telefonate inerenti ai viaggi dei migranti e al sistema di pagamento non tracciabile Hawala. Di contro, la difesa ha presentato diversi documenti, tra cui le copie dei conti che dimostrerebbero come Tesfamarian Mered non conducesse una vita agiata, in contrasto con la quantità di denaro che dovrebbe avere a disposizione uno dei principali trafficanti di morte.
Materiale che verrà analizzato durante la prossima udienza. «Chiederemo la scarcerazione», anticipa Calantropo, che dice a MeridioNews: «L’accusa ha prodotto costruzioni scientifiche. Il telefono era uno ed era suo, ma se lo passavano in dieci. Nelle comunità povere – spiega il legale – chi ha un telefono lo presta a tutti, è questo il problema». Presente all’udienza anche la sorella dell’imputato, che vive in Norvegia. È la prima volta, dall’inizio della vicenda, che i due riescono a vedersi. Perché al Pagliarelli le visite sono state negate per la mancanza di alcune certificazioni. Il loro abbraccio e le lacrime della donna ammutoliscono l’intera aula.
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