Migranti, svolta nella lotta al traffico di uomini Richiesta l’estradizione del superboss egiziano

«Alta valenza e assoluta originalità del metodo investigativo». È con queste parole che la Direzione nazionale antimafia descrive l’attività di contrasto al traffico di esseri umani svolta dall’ex procuratore capo di Catania Giovanni Salvi. Il magistrato a cui, prima della sua nomina, veniva contestato un curriculum senza lotta alla mafia. Ma con un pedigree fatto di battaglia al terrorismo internazionale. Conoscenze che gli sono valse il plauso dei colleghi romani per «un percorso giudiziario nuovo e inesplorato» legato al commercio di migranti. Ma che sono servite anche a costruire un nuovo percorso per punire i trafficanti, che si è concretizzato per la prima volta il 19 novembre 2014, quando 16 imputati sono stati condannati a sei anni di reclusione in qualità di componenti dell’equipaggio di una «nave madre». Un’imbarcazione, cioè, usata per trasferire i migranti sui barconi fatiscenti in cui vengono recuperati. 

La svolta nella lotta al traffico di uomini, donne e bambini – provenienti per lo più dall’Africa e dal Medioriente – sta nella ricostruzione della catena di comando delle organizzazioni transnazionali che promettono un approdo sicuro ai profughi. Se prima erano gli scafisti il punto di partenza e quello d’arrivo di indagini brevi, è a Catania che si è affermata la giurisdizione italiana su sbarchi e naufragi in alto mare. Ed è sempre nel capoluogo etneo che si è messa a punto una rete di collaborazione tra le forze dell’ordine internazionali. Che spera di colpire non solo gli anelli più deboli, ma anche chi guadagna sulla pelle dei migranti senza mettere piede sui barconi fatiscenti coi quali vengono trasportati. 

I punti di partenza, nonché quelli in cui hanno sede le associazioni a delinquere, sono nella maggior parte dei casi la Libia e l’Egitto. Dai loro porti vengono fatte partire le navi mercantili che, un approdo dopo l’altro, raccolgono le persone che vogliono fuggire dalla guerra o dalla miseria. Secondo la ricostruzione, i pescherecci arrivati in acque internazionali trasbordano i profughi sui barconi di legno «palesemente inadeguati al trasporto di un numero di passeggeri che spesso è di numerose centinaia». A questo punto viene fatta partire la richiesta d’aiuto, mentre gli organizzatori fuggono su barche migliori di quelle che hanno appena abbandonato. «Provocando spaventose tragedie – si legge nelle carte della Dna – poiché talvolta i soccorsi non giungono in tempo». Un caso simile a quello che si è verificato a largo del Canale di Sicilia il 18 aprile 2015. I morti, in quella circostanza, sono stati oltre 800. E alcuni si trovano ancora in fondo al mare, in attesa di un difficile recupero.

Nel periodo di riferimento della relazione della direzione nazionale antimafia (1 luglio 2014 – 30 giugno 2015), la polizia etnea ha indagato su oltre 40 sbarchi sulle coste catanesi. Molte di queste inchieste sono ancora in corso. Ma alcune hanno portato, per esempio, all’ordinanza di arresto emessa il 17 settembre 2014 nei confronti di Farrag Mohamed Ahmed Ahmed Hanafi che, secondo gli investigatori, è il boss degli sbarchi. L’uomo è accusato di essere il capo di una fitta rete di trafficanti di esseri umani che ha spesso il suo punto d’arrivo nel capoluogo catanese. Per lui è stata richiesta l’estradizione dal Paese in cui vive, l’Egitto. Ma non è tutto. A essere accusati di avere un ruolo apicale nel commercio dei migranti ci sono anche Fuad Abu Mamada e Ibrahim Al Masri. Pure per loro è stata emessa una richiesta di estradizione e di arresto provvisorio.

Luisa Santangelo

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