Migranti, rinvio a giudizio per il presunto boss Mered «Stato italiano vittima di uno dei governi più corrotti»

La giudice Alessia Geraci ha accolto la richiesta avanzata dai pm e ha rinviato a giudizio il presunto boss della tratta di esseri umani, arrestato in Sudan il 23 maggio di quest’anno ed estradato in Italia il 7 giugno, e che secondo l’accusa risponderebbe al nome di Yedhego Medhane Mered. Mentre Michele Calantropo, difensore dell’imputato, all’udienza di questa mattina aveva chiesto il non luogo a procedere perché convinto che l’arrestato non sia il ricercato internazionale ma un eritreo di nome Tesfamarian Mered. Il processo avrà inizio il prossimo 16 novembre.

L’ultima udienza di luglio si era conclusa con la consegna alla giudice Geraci di una memoria da parte del pm Geri Ferrara, incentrata principalmente sulle presunte immagini di cadaveri fatti a pezzi presenti nel cellulare trovato addosso all’uomo al momento dell’arresto e alle analisi effettuate sul suo account Facebook. Secondo l’accusa le immagini mostrerebbero scene di cannibalismo, mentre secondo la difesa si tratterebbe di foto risalenti al marzo 2009 e mostrerebbero una pratica religiosa buddhista che col traffico di migranti non avrebbe nulla a che vedere.

All’udienza di oggi ha deciso di prendere la parola anche l’indagato, che ha dichiarato di chiamarsi Tesfamarian Mered, di essere nato ad Asmara nel 1987 e che al momento dell’arresto in Sudan aveva con sé un documento d’identità e dei soldi. Tutte cose che gli sarebbero state immediatamente tolte e mai più restituite dalle autorità sudanesi, che durante la carcerazione lo avrebbero maltrattato e picchiato. Ha aggiunto, inoltre, di essere rimasto ad Asmara per tutto il 2014 con la sorella e di essere andato in Etiopia solo nel 2015, dichiarazione in netto contrasto con quanto raccolto e depositato nella memoria dell’accusa. L’uomo continua quindi a dichiararsi estraneo ai fatti che gli vengono attribuiti dalla magistratura. 

«Lo Stato italiano è vittima di uno dei governi più corrotti, lo dice la Corte penale internazionale, che ha emesso due mandati di cattura contro il presidente del Sudan Omar Al-Bashir», afferma Calantropo. «Insisto nel dire che questo è un gravissimo errore giudiziario. Se fosse lui il pericoloso boss che cercano, il traffico di esseri umani dalla Libia si sarebbe dovuto arrestare, e invece non è così». Anche il difensore insiste sull’elemento del riconoscimento tramite l’account Facebook: «Il profilo viene aperto nel 2014, è vero, non si sa da dove, ma la connessione ip parte nel 2015 dal Sudan. Oltre al fatto che risulta dalle nostre verifiche che il cellulare ha avuto almeno due proprietari». Secondo la ricostruzione della difesa, infatti, l’imputato avrebbe acquistato il cellulare in un mercato. Si tira in ballo anche Wehabrebi Atta, il primo pentito coinvolto nel traffico di migranti, che ai pm ha dichiarato di aver conosciuto quello che oggi è ritenuto uno dei maggiori boss della tratta nel 1999: «In quell’anno il mio cliente aveva 12 anni», chiarisce Calantropo.

Ancora secondo il difensore, l’accusa avrebbe prodotto traduzioni sbagliate, perché incomplete e imprecise, oltre ai risultati inconcludenti a cui è giunta la perizia fonica condotta dal perito romano Marco Zonaro: «Pur di non dire che si tratta di voci diverse, il professore ha tirato in ballo e accomunato fra loro due ceti linguistici differenti, quello eritreo e quello egiziano». Per l’accusa le comparazioni fra le conversazioni nel 2014 e quelle del 2016 sarebbero impossibili per via del diverso tono di voce utilizzato dall’uomo intercettato, che nelle prime parla a voce molto bassa mentre in quelle più recenti urla. «Noi abbiamo prodotto dati obiettivi, che smentiscono in toto l’impianto accusatorio – conclude Calantropo – Siamo ancora convinti che si tratti di un clamoroso scambio di persona».

Silvia Buffa

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