Migranti, il medico Bartòlo ospite di Addiopizzo «In corso olocausto peggiore di quello nazista»

«Ho dovuto fare cose terribili, cose a cui non ti abitui mai e che ti perseguitano la notte, negli incubi. Ho sempre paura quando devo fare un’ispezione cadaverica: piango, vomito, ma solo facendola posso capire, sapere la loro storia e dargli la loro dignità, perché non sono corpi inerti ma persone con una dignità anche da morti». La sua voce è bassa, quasi stanca, i suoi occhi lucidi ma attenti, e il suo discorso è uno sfogo doloroso, una riflessione che fa male, le sue parole un pugno in faccia. Ma proprio perché doloroso è giusto raccontare, riportare. Ne è convinto Pietro Bartòlo, medico di Lampedusa, diventato noto da quando il regista Gianfranco Rosi lo ha immortalato nella sua pellicola, Fuocoammare. Lo dice davanti ai palermitani accorsi ieri a Palazzo Quaroni per partecipare al dibattito organizzato da Addiopizzo in occasione della XII festa del consumo critico, Diritti essenziali, migrazione e legalità.

«Palermo è una città straordinaria, multietnica e stare qui a parlare con voi mi fa capire che sfondo una porta aperta», dice subito. Ma i sorrisi durano un attimo: «Mentre noi stiamo qua a parlare e a discutere di queste cose, ci sono di là bambini che muoiono – alludendo proprio a Lampedusa – È una mattanza, un olocausto peggiore di quello avvenuto 70 anni fa. Sono 26 anni che sappiamo tutti cosa avviene in quel mare e quando i nostri figli ci diranno che siamo colpevoli, noi non avremo nessun alibi». Nessuno, malgrado la sua isola non abbia mai ceduto al ricatto di un muro o di un filo spinato. «Ci chiamano la porta d’Europa, è vero – continua – e noi quella porta non l’abbiamo mai chiusa. Fino al naufragio del 2013 li abbiamo accolti da soli, ora per fortuna no». A ottobre saranno quattro anni dal naufragio a cui si riferisce il medico, quello in cui morirono 368 persone: «Qualcuno dice che furono 366, ma non è così. Io non conto mai, ma quella volta invece l’ho fatto. E le persone erano 368, e parliamo di due persone in più, non di numeri», ci tiene a precisare.

Parlare dei migranti, dei loro viaggi, delle loro storie fa bene, è importante. Ma secondo Bartòlo la priorità è una soltanto: fare in modo che non muoiano più persone. «Sono riuscite a trovare delle soluzioni delle piccolissime comunità, come quella valdese. Bastano solo 20 miglia in più, andiamo a prenderli dall’altra parte, l’Europa non riesce a farlo?», domanda retorico. Salvare queste vite deve accompagnarsi a un’inevitabile lotta contro i pregiudizi: «Alcuni politici delinquenti fanno terrorismo mediatico e secondo me dovrebbe essere perseguito per legge – dice senza troppi giri di parole – Parlano di invasione epocale, bugie su bugie che terrorizzano la gente, che si comporta in un certo modo perché cattivamente informata». Pregiudizio dopo pregiudizio, lui sta lì col microfono forse troppo lontano ma con la voce ben salda a scardinarli uno per uno: i migranti portano malattie, i migranti sono terroristi, e poi quello che è ormai un triste tormentone dei nostri tempi: i migranti vengono qui per rubarci il lavoro.

«Vengono da noi per sopravvivere – dice deciso – Non vogliono niente, solo un mondo migliore. Fanno i lavori più umili, qualcuno ha ancora qualche ambizione, dei sogni e se glieli consentiamo ci ringraziano, altrimenti si accontentano. Persone nate dalla parte sbagliata». Ma queste cose, Pietro Bartòlo le ha raccontate tante volte. La rabbia e la commozione sono sempre le stesse, ma anche la rapidità con cui tutte le volte torniamo a dimenticarcene. Ecco perché, oltre a continuare a fare il medico a Lampedusa e ad aver costretto Rosi a girare quel docufilm potentissimo, ha deciso di mettere tutto nero su bianco in un libro scritto nel 2016 insieme alla giornalista e amica Lidia Tilotta, Lacrime di sale. «Sono un medico che fa il suo dovere, ho scritto un libro per raccontare le storie di queste persone, i loro nomi e cognomi, non il fenomeno. Per fare cadere quei pregiudizi e tutto quel fango che buttano su queste persone», spiega.

«Non sono un eroe, io appunto faccio il mio dovere – dice alla fine – Considerare oggi l’aiutare le persone un atto eroico ci fa capire che quanto la società sia malata. Sono esseri umani, persone come noi, sono delle opportunità non problemi, vogliono lavorare e inserirsi, collaborare e crescere con noi. Questo si può fare, basta guardarli come esseri umani. Quello che ho fatto per 26 anni mi ha fatto sentire una sorta di sistema-tampone, per questo vado in giro per raccontare, rinunciando a vedere la mia famiglia. Lo faccio da un anno e mezzo e mi costa molto, ma se è necessario lo farò fino alla morte».

Silvia Buffa

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