Dopo nove giorni di attesa, se ne stanno sulla soglia del PalaNitta, seduti in cerchio, qualcuno sdraiato per terra. Sono dieci ragazzi provenienti da Abuja, capitale della Nigeria, scappati dalle violenze del gruppo terrorista di Boko Haram, il braccio armato di Al Qaeda in Africa che continua a fare stragi. Lo stesso che ha sequestrato centinaia di studentesse qualche settimana fa. Nel palazzetto dello sport di Librino sono rimasti in una settantina, quasi tutti provenienti dall’Africa subsahariana. Le porte sono aperte, di guardia c’è solo una vettura della guardia di finanza con tre agenti. Nel gruppetto di nigeriani, arrivati a Catania il 9 giugno e ancora in attesa di sapere in quale Cara o Sprar essere destinati, c’è preoccupazione: uno di loro – Melchior, 22 anni – mercoledì pomeriggio si è allontanato dicendo che sarebbe tornato presto e di voler fare solo un giro per le strade attorno all’impianto. Da allora è scomparso. Un comportamento a cui il fratello, Joly, 24 anni, anche lui ospite al PalaNitta, non riesce a dare una spiegazione. «Sono sicuro che non è andato via volontariamente: siamo partiti insieme tre mesi fa dalla Nigeria, abbiamo attraversato l’Africa tra mille difficoltà e abbiamo un piano comune: restare in Italia e chiedere protezione internazionale. Nessuno di noi aveva intenzione di scappare e poi siamo qui da nove giorni, l’avremmo potuto fare tranquillamente prima».
Joly non si dà pace. «Melchior era solo ieri pomeriggio, non conosce nessuno, non ha né soldi né cibo. Ho paura che gli sia successo qualcosa, ma non riusciamo a comunicare con la polizia perché loro non parlano inglese e noi non capiamo l’italiano». Sono centinaia i migranti che negli ultimi giorni sono transitati dal PalaNitta e dopo poche ore hanno ripreso il loro viaggio. Quasi spinti da una macchina dell’accoglienza al collasso e mal coordinata. La struttura d’altronde appariva ieri inadatta ad ospitare così tante persone: appena entrati nel palazzetto si avvertiva un’insopportabile puzza di urina, nonostante gli operai della Multiservizi avessero appena finito di pulire i bagni. Fa caldo e si moltiplicano mosche e zanzare. «Stiamo fuori il più possibile, perché dentro ci sentiamo male – spiega Joly – anche mio fratello mercoledì pomeriggio è uscito per questo motivo, ma non è più tornato». Il giovane fornisce anche una descrizione dell’abbigliamento che indossava Melchior: un paio di pantaloni beige e una maglietta gialla. Oltre al numero identificativo, quello che viene assegnato ad ogni migrante all’arrivo al porto: nel caso del ragazzo scomparso è il 96.
Attraverso questo, gli agenti della finanza risalgono a una foto scattata sulla banchina del molo e, dopo alcuni iniziali tentennamenti – «E’ come cercare un ago in un pagliaio», dicono – decidono di comunicare le informazioni alla centrale. Nella speranza, forse vana, che scatti la ricerca. O almeno nella possibilità di un colpo di fortuna. I dieci ragazzi nigeriani hanno età comprese tra i 18 e i 24 anni. Non si conoscevano prima di partire, le loro vite si sono incrociate durante il viaggio. Nel passaggio dalla Nigeria al Niger e poi alla Libia. E’ qui che tutti raccontano di aver subito i trattamente peggiori. Sono i loro occhi, prima delle parole, a mostrare orrore al suono di quel Paese. «Libia is worst», la Libia è la cosa peggiore. Lo ripetono a cadenza regolare, mostrando sulla pelle i segni di percosse, bruciature, proiettili di gomma. Nelle gambe, sui piedi, nelle braccia. Lasciti dei trafficanti. «Libia is worst». Raccontano di un paese nel caos, con parti in lotta continua. Per loro l’inferno è stato soprattutto a Sabah, città del centrosud. Qui vengono presi in consegna dai trafficanti e inizia la parte più difficile del viaggio che si concluderà il 9 giugno a Catania. Adesso sembra che gli importi poco della puzza, del caldo, delle incognite che gli riserva il futuro. Perché volete restare in Italia? «Perché è un Paese di pace e siete ospitali», è la risposta immediata.
La convivenza pacifica tra cristiani e musulmani, messa a dura prova in Nigeria dai terroristi di Boko Haram, rivive all’interno di questo gruppetto al Palanitta. Quando il sole è già basso, due ragazzi di fede islamica stendono il loro tappetino e poggiano il capo a terra pregando in direzione di La Mecca. Gli altri recuperano un pallone e ammazzano il tempo giocando a calcio. «Com’è finita la prima partita della Nigeria ai Mondiali?», mi chiedono. «Zero a zero contro l’Iran», rispondo aspettandomi un moto di delusione dall’altra parte. «Con una vittoria contro la Bosnia ci qualifichiamo – replicano – Siamo pur sempre i campioni d’Africa». Prima di andare via, l’unica richiesta: telefonare a casa. «Mia mamma non sa neanche che sono ancora vivo, da quando siamo arrivati non ci hanno fatto chiamare e noi non abbiamo soldi per comprare le schede». Dopo qualche squillo a vuoto, una voce risponde dall’altro lato del mondo. E sul viso di Joly si allarga un sorriso. Il primo di questo lungo pomeriggio.
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