Migranti, cicatrici e segni che raccontano storie di torture E un medico che gli dà voce. «È tutto lì, in quelle ferite»

«Tu non sai cosa hai fatto per me». Ma prova almeno ad immaginarlo, Antonietta Lanzarone, tutte le volte che qualcuno le rivolge questa frase. E a pronunciarla, in genere, non è mai uno qualsiasi. Ma qualcuno che è passato dal suo ambulatorio. Specializzanda in Medicina legale al Policlinico di Palermo, da ormai nove anni ha deciso di occuparsi di un settore particolarmente delicato e pieno di responsabilità. Dove l’umanità è alla base di tutto. «Il medico legale non è solo quello delle autopsie, come pensano in molti – racconta subito lei -, si occupa di tutto ciò che ha a che fare con la lesività, con la violenza». Ma, al contrario di quello che si può credere non padroneggiando la materia, non ci sono solo morti e cadaveri. Anzi. Ci sono anche e soprattutto i vivi. E nell’ultimo anno e mezzo per Antonietta Lanzarone questi vivi sono stati 110 migranti sopravvissuti agli orrori dei loro disperati viaggi.

«Da anni, ormai, si eseguono autopsie su quelli che arrivano morti. Ma, a parte la tragedia del 3 ottobre 2013, gli arrivi più consistenti sono cominciati intorno al 2015 e sono continuati fino al 2018. Quasi ogni estate e ogni autunno abbiamo aspettato questi arrivi, organizzandoci in un team di lavoro», spiega. Cominciano a poco a poco a dedicarsi soprattutto ai corpi di chi ce la faceva e a quello che, allo stesso modo dei morti, avevano da raccontare. «Sui loro corpi, che siano vivi o morti, ci sono spesso sia lesioni recenti legate al viaggio appena vissuto, sia cicatrici vecchie – dice -. Non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa ne fosse di chi sopravviveva, portandosi addosso tali e quali le stesse ferite di chi invece non ce l’aveva fatta. Secondo me era un aspetto su cui riflettere, su cui concentrare tutte le attenzioni possibili». Inizia a pensarci, Antonietta Lanzarone, a rimuginare su questo aspetto che quasi le si è attaccato in testa. E si confronta. La prima con cui si cimenta, a cui domanda e con cui si confronta, è un’amica di Medici Senza Frontiere: «Che succede a chi ce la fa?», è il quesito che le sta più a cuore.

«Scopro a poco a poco il mondo dei richiedenti asilo, cui serve tutta una documentazione specifica che giustifichi i “motivi fisici” per richiedere e ottenere una tutela». Documenti, insomma, che traducano quei segni sul loro corpo, che i medici in primis cercano di interpretare e raccontare. «Nel mio paese sono stato torturato. Durante il mio viaggio ho subito violenze d’ogni tipo», dicono quelle cicatrici. Ma occorrono dei riscontri. «Il medico legale deve confermarlo o meno, cercando segni compatibili ai racconti di quanto subito. Da me arriva chiunque – spiega Lanzarone -, specie chi ha dei segni, tanti segni. Io su quelli mi posso basare, ma ci sono storie di violenza e traumi anche in chi, poi, sul corpo non ha segni evidenti, visibili. Devo, quindi, cercare di ricostruire quello che vedo e la sua compatibilità con quello che il migrante mi racconta». I colloqui e le visite possono durare, a volte, anche delle ore. E sempre, insieme ai medici, ci sono anche gli psicologi «per contenere quel trauma che, purtroppo, rivivere è inevitabile».

«A noi serve la storia, se no sarebbe solo un elenco di cicatrici». Per ricostruirla, lavora in perfetta sinergia una rete di esperti in diversi settori, non solo quello medico, che dialoga senza sosta, in uno scambio continuo di informazioni, pareri, consigli e metodi. C’è soprattutto questo alla base di quelle 110 visite effettuate nell’arco di un anno e mezzo e anticipate sempre dalla firma del consenso informato da parte dei pazienti visitati, che hanno potuto finalmente decidere per sé, rimanendo a volte sorpresi da questa inattesa possibilità. «Tutti i casi che ci arrivano sono prima passati da una Commissione che li ha rigettati. Ecco perché l’importanza di tutta la documentazione necessaria, al quale anche i medici legali contribuiscono». Centodieci visite. Ma come ci si confronta con segni e cicatrici che raccontano storie simili?

«Resettando la mente – dice Lanzarone -, facendo scattare un meccanismo di difesa. Una sorta di normalizzazione per proteggermi e riuscire a lavorare mantenendo sempre serietà e professionalità, restando concentrata. Non è distacco, le emozioni sono sempre tutte lì, è inevitabile. Significa che non posso lasciarmi andare a ogni storia drammatica. Ho imparato a non farlo anche di fronte ai cadaveri, dietro ai quali c’è sempre la storia di una violenza, in qualche modo. Altrimenti ogni morto sarebbe il mio morto». Non è stato facile, però, arrivare a questo. «All’inizio, una volta tornata a casa, ci pensavo e ripensavo a quello che avevo visto, alle persone che avevo avuto di fronte. Al pensiero che, per quanto possa immedesimarmi in quello che hanno passato, io non sperimenterò mai la Libia». Il posto in cui ogni dramma trova il suo legittimo proprietario, per non lasciarlo più.

«Più di tutti, forse, mi colpiscono le donne. Non reagiscono tutte allo stesso modo quando devono raccontarti la storia di quelle cicatrici. Alcune si dissociano completamente e parlano guardando un punto fisso. Altre invece esplodono in un pianto senza fine, senza rimedio». Un dolore di fronte al quale si è sempre disarmati. «Di norma – continua – per il medico legale non c’è un “ritorno” del paziente. Eppure questo ambulatorio ha portato questo aspetto anche in questo settore. C’è un livello incredibile di riconoscenza da parte di queste persone, che tornano da noi, vengono a cercarci». Eppure di molti di quei 110 migranti Antonietta Lanzarone ha perso ormai le tracce, specie dopo la chiusura dei Cas. «Quando ho scelto questa strada nel 2010 non mi aspettavo di imbattermi in tutto questo – rivela infine -. La questione migranti all’epoca neanche esisteva. Ma comunque la medicina legale rientra nella categoria della violenza, in un modo o nell’altro ce n’è in ogni storia di morte, la mia è stata una scelta consapevole. Tutto quello che ho visto, che ho sentito incide nella mia vita, non potrebbe essere altrimenti. Sono storie, che alla fine, entrano nella tua vita e che non se ne vanno più».

Silvia Buffa

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