Migranti buttati in mare durante traversata «Colpevoli, ma non c’entra l’indole violenta»

«Supplicava perché aveva dei figli e lui se n’è fregato e l’ha gettato in mare». Lo ripetono tutti, senza sosta. Gli stessi ricordi, la stessa versione. La raccontano il 14 aprile 2015, appena mettono piede sulla Ellensborg, la nave mercantile battente bandiera panamense che li trova nel bel mezzo del canale di Sicilia, salvandoli da morte certa. La raccontano ancora, questa versione, quando sbarcano a Palermo la mattina del 15 aprile. Sono 95 sopravvissuti, ma solo in sei si fanno avanti per parlare. Sono loro, Emos, Agyamang, Osman, Augustin, Emeka e Lambert, a puntare il dito contro quindici compagni di traversata. Fatta eccezione per uno, il ventottenne senegalese Diop Seckou, accusato di essere il presunto scafista della tratta, per gli altri quattordici l’accusa è terribile: omicidio plurimo. Avrebbero gettato in mare dal gommone nove migranti durante la traversata. Scattano subito le indagini, fatte di accertamenti, deposizioni, riconoscimenti e confronti. Per loro il gip dispone il giudizio immediato e il processo prende il via il 17 dicembre del 2015 davanti alla Corte d’assise, in una semi deserta aula bunker dell’Ucciardone.

«Convergono le dichiarazioni accusatorie dei dichiaranti, ritenuti credibili» e connotati da «elevata affidabilità». Questa la ragione principale che porta la Corte a condannare i sei imputati di omicidio a 18 anni di reclusione, a fronte dell’ergastolo chiesto dai pubblici ministeri. Quattro anni, invece, allo scafista, nei confronti del quale viene sottolineata «l’assenza di quelle violenze o minacce da parte dei trafficanti organizzatori del viaggio, che l’imputato aveva addotto, come a voler sostenere uno stato di necessità». Il suo è un atteggiamento che non convince la giuria, che ne evidenzia la condotta dolosa: «È colui che decide consapevolmente di prestare ausilio all’organizzazione criminale». La Corte tuttavia gli riconosce le attenuanti generiche per via della giovane età e delle condizioni di difficoltà.

Attenuanti generiche anche per i sei imputati di omicidio plurimo, «poiché non è possibile non tener conto nella ponderazione della pena dell’influenza che comunque giocò l’eccezionalità del contesto sul comportamento degli stessi imputati – si legge nelle motivazioni – Se è vero che delle persone dotate di una personalità salda e sensibili, anche di fronte ad una prova così dura come quella di vedere la morte in faccia in mare aperto su un gommone con più di cento disperati, da un certo punto in poi senza prospettive di salvezza, riuscirono a non arrendersi e a non schiacciare gli altri, non è possibile escludere che gli imputati così violenti in quel contesto limite, non lo fossero abitualmente». Non viene accolta, però, la richiesta dei pm di dichiararli «delinquenti per tendenza», per la Corte non si può stabilire con certezza se prima e in condizioni diverse fossero delinquenti abituali.

Nelle 165 pagine di motivazioni, poi, viene scardinata passo passo ogni critica sollevata dalle difese durante il processo. Prima fra tutte la genuinità e affidabilità dei testimoni e la tendenziosità dei loro resoconti. Altre si sono concentrate sulle modalità di condurre l’indagine, sulla «ristrettezza di vedute del pm, che avrebbe trascurato di considerare il fattore umano degli eventi». Altro aspetto fortemente contestato è stato il fatto di aver ascoltato solo sei testimoni, dei 95 sopravvissuti totali. Infine, la questione dello stato di necessità o dell’integrità di coscienza di chi eventualmente avrebbe commesso il reato. «Dall’accostamento dei resoconti di ciascuno dei dichiaranti viene fuori un panoramico incastro di informazioni che la Corte giudica straordinariamente coerente e capace di restituire un quadro degli eventi lineare e logicamente giustificato – si legge nel documento – Alcuni di esse hanno dimostrato una spiccata lucidità e indipendenza di giudizio».

La «salda autonomia dimostrativa» delle testimonianze ha permesso di escludere che gli imputati avessero dato sul gommone «segni di uno stato mentale di menomazione della coscienza o della capacità di controllo della volontà, ma piuttosto tutti segni di un volersi lasciare andare alla violenza istintiva, per il senso di impunità data dalla certezza di non dovere mai subire un giudizio, frammista a un sentimento di abbandono e disperazione che fungeva da autogiustificazione e che certamente li avviliva», si legge ancora. «Il contesto e tutti i numerosi dettagli descritti dai testimoni rivelano che in realtà la scelta di uccidere partì da uno stato di sofferenza interiore che si tramutò in insofferenza per gli altri, e dalla scelta di lasciarsi andare allo sfogo degli istinti violenti, attivati certamente dalla situazione, ma non per questo scriminanti».

Cade il movente ipotizzato originariamente, quello dell’odio religioso: qui le dichiarazioni dei sei testimoni si fanno discordanti e non tutti se la sentono di affermare con sicurezza che a generare le aggressioni sia stato il modo di pregare diverso di chi poi è finito in mare. Assolti infine i restanti otto imputati per non aver commesso il fatto, nei loro confronti il quadro indiziario resta insufficiente: «Non convergono gli stessi riconoscimenti e gli stessi ricordi di tutti i testimoni».

Silvia Buffa

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