Miccichè, il presidente mancato

Nella prima puntata del nostro ‘medaglione’ abbiamo cercato di descrivere, per sommi capi, gli ‘scivoloni’ che Gianfranco Miccichè inanella, uno dietro l’altro, dal 1994 al 2000. Questa analisi, però, ci ha costretto a non sottolineare altre particolarità di questo personaggio che, lo ripetiamo, alla fine lo rendono simpatico.
Ricordo che, una volta, avevo lasciato il Peloponnneso – dove ormai risiedo – per venire a Palermo. La fondazione ‘Mormino’ del Banco di Sicilia organizzava un convegno, forse di economia. Ci sono andato non per l’economia – non me ne frega niente di ‘ste cose – ma per vedere la sede di questa fondazione che dicono sia stata restaurata da una dittà chiacchierata. E, ovviamente, ci sono andato anche per vedere i quadri.
Alla porta di Villa ‘Zito’ – la sede della fondazione ‘Mormino’ dove tutti, a cominciare dai portieri sono, come si dice dalle vostre parti, ‘attaccati cu’ ‘i spinguli’ – un custode in divisa impediva l’entrata a due giornalisti in jeans e giubotto. “Noi dobbiamo lavorare!”, inveivano i giornalisti. “Così vestiti qui non entrerete mai!”, replicava calmo ma fermo il custode. “Lei si assume una grave responsabilità”, insistevano i giornalisti. “Io mi attengo alle direttive”, controreplicava il custode.
Nel bel mezzo della vivace discussione spuntano due uomini seguiti da un ‘codazzo’ di gente che non poteva finire. Tutti erano in giacca e cravatta tranne uno: Gianfranco Miccichè. Il ministro – non ricordo più si era nel 2002 o 2003 e Miccichè era viceministro con la delega per il Mezzogiorno – si presenta in jeans, maglione nero a girocollo e giubotto. Sulla sua destra c’era Pippo Fallica, che è la sua ombra, in giacca e cravatta. Ovviamente, non solo Micicchè e il ‘codazzo’ entrano, ma vengono pure accompagnati.
I giornalisti insorgono. “Scusi, perché lui sì e noi no?”. Quello è il ministro…”, blatera il custode ormai in difficoltà. “La legge non è uguale per tutti?”, replicano i giornalisti. “Tra l’altro – fa notare uno dei due giornalisti – i miei jeans, se non le dispiace, sono di ‘Giglio in’. E il mio giubotto è Murphy and Nye. Per non parlare di quello del mio collega che, come può notare, è un giubotto Harmont and Blaine.
Mentre quello indossato dal ministro, non si secchi, era un giubotto un po’ ‘scognito’. Quanto ai jeans, quelli dell’onorevole Miccichè forse erano pure cinesi. Dunque, se la dobbiamo gettare sui capi di abbigliamento, noi abbiamo più titoli del ministro. Quindi entriamo…”.
Sì, in Gianfranco Miccichè ci sono cose – atteggiamenti, prese di posizioni, al limite anche impuntature – che lo rendono simpatico. Come il vezzo – quando si trova fuori Palermo, che è la sua città – di ricevere i suoi colleghi politici in albergo facendosi trovare in abiti ‘comodi’ sdraiato sul letto mentre risponde contemporaneamente a quattro-cinque telefonini.
Riverito, temuto e rispettato, non sempre – anche dentro Forza Italia in Sicilia – Miccichè è stato amato (il passato è d’obbligo, perché non c’è più Forza Italia e perché Miccichè ha lasciato il Pdl). Se si è salvato, ebbene, questo lo deve al suo rapporto con Berlusconi. Si racconta che un giorno tre importanti dirigenti di Forza Italia siciliani, dopo essere stati strapazzati da Miccichè, decidono di recarsi direttamente ad Arcore per parlare con il ‘capo’ e per dirgli che non ne possono più dei modi di Gianfranco. I tre ottengono l’appuntamento nella villa di Arcore. Quel giorno vengono ricevuti e fatti accomodare in una stanza. Poco dopo prendono posto in un’altra stanza nella quale, in fondo, sta una scrivania con dietro una sedia girevole con schienale alto. La sedia risulta girata di centottanta gradi rispetto alla stessa scrivania.
I tre dirigenti azzurri arrivati dalla Sicilia non sanno che fare. Aspettano qualche minuto. Poi, istintivamente, si avvicinano alla scrivania. E a questo punto che la sedia fa una rotazione di centottanta gradi. I tre rimangono di ghiaccio: seduto c’è un sorridente Gianfranco Miccichè che, sornione, chiede:: “Mi stavate cercando?”.
Un rapporto forte con Berlusconi, dunque. Ma anche tanto coraggio. Come quando, alle elezioni politiche del 2006, sfida Luciano Violante nel collegio uninominale delle Madonie. Violante, in quel momento, è l’uomo forte degli ex comunisti. Ha ricoperto per lunghi anni la carica di presidente della commissione nazionale Antimafia. Ed è – cosa non secondaria nell’Italia ancora piena dei veleni di Tangentopoli – un magistrato. Ai più, la candidatura di Miccichè in quel collegio, contro un Violante che, per l’occasione, si era trasferito in Sicilia, sembra una follia.
Non la pensa così Micicchè. Che è convinto, comunque, di giocarsi una bella partita. Le urne gli danno ragione: contro ogni previsione batte Violante nel collegio uninominale.
L’anno successivo, nuova candidatura. A Palermo si vota per le comunali. Il sindaco uscente, Leoluca Orlando, benché con l’immagine un po’ appannata (il sindaco ha puntato sullo schema democristiano: partito, del resto, dal quale Orlando proviene: cooperative sociali e tanti precari che lascerà in eredità al sindaco che nel 2001 prenderà il suo posto, Diego Cammarata), è comunque il netto favorito. I sondaggi lo danno al 70 per cento. Nessuno, nel centrodestra, lo vuole sfidare. Nessuno tranne Miccichè che si candida e perde con il 35 per cento dei voti circa. Una sconfitta che, però, proprio per il coraggio e la determinazione messa in campo anche di fronte a grandi difficoltà, rafforza la sua leadership in Forza Italia a Palermo e, in generale, in tutta la Sicilia. Cosa, questa, che riconoscerà lo stesso Orlando.
Degli errori commessi alla Regione tra il 1998 e il 2000 abbiamo già detto. Proprio nel 2000, dopo la breve ma disastrosa parentesi del governo di centrosinistra retto dal diessino, Angelo Capodicasa, la presidenza della Regione ritorna al centrodestra. Come al solito, il merito del controribaltone viene ascritto a Miccichè. Ed è, al solito, una lettura un po’ troppo generosa verso l’allora coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Qualche merito, per carità, ce l’ha anche lui. Ma, appunto, è ‘qualche0’ merito e non ‘il’ merito.
In realtà, la partita per disarcionare il governo Capodicasa è agevolata, come già accennato, dall’esaurimento, a Roma, dell’operazione Udeur. A logorare l’esecutivo trasformista dei Ds lavorano in tanti: Ciccio Nicolosi, che mette a soqquadro gli equilibri nelle commissioni legislative, Bartolo Pellegrino, Fausto Spagna e altri ex democristiani in cerca di nuovi posizionamenti. Il colpo di grazia a Capodicasa lo assesta Totò Cuffaro, che riprende posto nel centrodestra. Questo ritorno all’ovile moderato è, forse, una delle cause delle ‘disgrazie’ giudiziarie che, di lì a qualche anno, si abbatteranno su Cuffaro.
Al posto di presidente della Regione viene designato Vincenzino Leanza, democristiano ‘navigato’. Nel frattempo – siamo già arrivati al 2001 – si cambia la legge elettorale e si introduce l’elezione diretta del presidente della Regione. E’ una legge pessima, fatta da un’Assemblea regionale che non si occupa di equilibrare i rapporti tra esecutivo e legislativo. Il risultato è una legge che dà al presidente della Regione i poteri di un monarca assoluto, senza contrappesi politici e istituzionali. Un disastro.
Nell’inverno del 2001 si aprono i giochi nel centrodestra per individuare il candidato alla presidenza della Regione che vincerà senza problemi, grazie anche a un centrosinistra consociativo e pasticcione. Nel 1996, come già ricordato, il ‘pallino’ era nelle mani di Miccichè. Che ha combinato solo disastri. Cuffaro, da parte sua, ha dimostrato la sua forza alle elezioni europee del 1999, presentandosi con una lista sconosciuta – il Campanile – e ‘incassando’, da solo, quasi 100 mila voti.
Miccichè vorrebbe candidarsi. Ma Cuffaro gli sbarra la strada. Con un semplice ragionamento: caro Gianfranco, senza di noi, voi di Forza Italia non vincere mai le elezioni regionali. Con me candidato, vinciamo tutti, compreso tu.
Micichè accetta e Cuffato sbaraglia il candidato del centrosinistra Leoluca Orlando (che pure era un buon candidato). Ufficialmente, nel centrodestra sono tutti contenti. Non lo è Miccichè. Che, pur andando a ricoprire la carica di ministro, non accetta l’idea di essere il leader del partito più forte in Sicilia costretto, però, a cedere la presidenza a un ex democristiano. Comincia, con molta probabilità, in quei giorni una strategia sottile, da parte degli azzurri, tesa a logorare Cuffaro, ora sul piano politico, ora su altri piani. Sarà una lunga partita a scacchi che, alla fine, vedrà tanti sconfitti. E tra questi sconfitti ci sarà pure – anzi soprattutto – lo stesso Miccichè. Ma l’ultima parte di questa Micciché-story ve la raccontiamo domani nell’ultima puntata.

Diogene Laerzio II

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