Messina, l’ombra della mafia su stadio S.Filippo Interessi anche nella security dei concerti estivi

Una vacca da mungere, senza litigare, ma spartendosi il ricavato di pizzo e servizi. Sarebbe questo il piano messo in atto dai clan di Cosa Nostra messinese sullo stadio San Filippo. Un patto siglato tra diverse famiglie mafiose che per anni avrebbero ottenuto fino a 120 biglietti gratuiti per ogni partita giocata in casa dal Messina calcio, imposto un pizzo di 100-150 euro a tutti i gazebo addetti alla vendita di bibite e alimenti e cercato di gestire direttamente i servizi di sicurezza. Tentativo che, secondo gli inquirenti che hanno coordinato l’operazione Matassa, è riuscito per i concerti dell’estate del 2012 in un’altra struttura cittadina: l’arena Villa Dante, dove si sono esibiti Emma e gli Afterhours. Proprio in quelle occasioni a svolgere il ruolo di vigilantes sarebbero stati gli uomini dei clan.

C’è anche questo nelle centinaia di pagine dell’ordinanza con cui la gip ha disposto l’arresto di 35 persone. Gli interessi della mafia messinese sullo stadio affonderebbero nel tempo. Il collaboratore di giustizia Salvatore Centorrino, già stabilmente inserito prima nel clan di Mario Marchese e poi in quello catanese dei Cappello-Pillera, racconta di «un’estorsione generalizzata che era stata da tempo avviata dai gruppi cittadini in accordo tra loro sin dai tempi dello stadio Celeste (il vecchio impianto ndr)». Ma l’attività illecita si sarebbe strutturata «in maniera più razionale» a partire dal 2002-2003, e in particolare poi con il nuovo stadio San Filippo, dal 2004. «Su mia iniziativa – racconta Centorrino – si decise di lasciare fuori dai conflitti tra i vari gruppi territoriali alcuni settori di interesse comune per la città tra i quali appunto lo stadio San Filippo e si arrivò a un accordo per la spartizione comune delle somme che venivano imposte a chi effettuava il sevizio di ristorazione». 

Il pentito spiega che «la società che ha in appalto la ristorazione cede i vari gazebo dislocati all’interno della struttura in gestione ai singoli operatori, con l’accordo che gli stessi si riforniscano dalla stessa società per l’acquisto dei beni alimentari ai prezzi, poco convenienti, indicati dalla società stessa». A ogni partita gli uomini dei clan – in particolare Franco Costantino e Luca Siracusano (il primo morto, il secondo arrestato nell’ultima operazione con l’accusa di associazione mafiosa) – avrebbero ritirato tra 100 e 150 euro per ogni gazebo. «Tale somma – spiega il pentito Centorrino – confluiva in un conto comune che tenevano loro stessi, e che poi comunicavano tramite un bigliettino per dare modo di fare i conti. Il ricavato a conclusione veniva diviso in diverse parti», in modo da soddisfare i vari clan. 

Le dichiarazioni di Centorrino hanno trovato conferma in quella di un nuovo collaboratore, Daniele Santovito, che, nel corso dell’interrogatorio del 13 gennaio del 2015, spiega come il controllo sulle attività dello stadio si sarebbe esteso anche alla spartizione dei biglietti. «L’accordo – dice Santovito – prevedeva che ai cinque gruppi facenti capo a Gatto, Ventura, Spartà, Trischitta e Barbera spettassero 120 biglietti per ogni partita in casa». In un altro passaggio sottolinea come il numero dei ticket variasse – tra 80 e 120 – in base all’importanza della partita. 

Ma non solo. Le ambizioni dei clan sarebbero andate oltre e avrebbero mirato all’affidamento diretto dei servizi di sicurezza per le partite del Messina. Con questa finalità Angelo Pernicone – lo stesso che, secondo la Procura, ha svolto un ruolo chiave nel comprare i voti per il consigliere comunale del Pd Paolo David e dei deputati Francantonio Genovese e Franco Rinaldi – manifestava l’intenzione di voler parlare con Pietro Lo Monaco, ex proprietario e presidente della squadra peloritana. «A Villafranca hai una testa di cazzo hai… vieni con me a Villafranca e parliamo con Pietro Lo Monaco», dice, intercettato dagli investigatori, a un altro esponente del gruppo. «Mai ricevuto alcuna richiesta da Pernicone», replica Lo Monaco, contattato da MeridioNews. «D’altronde – aggiunge – io sono andato via da Messina come un disperato per l’assoluta mancanza di risposta da parte dei Messinesi, in una partita incassavo al massimo duemila euro e il costo di organizzazione arrivava a cinquemila euro. La mafia va dove ci sono i soldi e lì non ce n’erano». Lo Monaco afferma però di «conoscere da moltissimi anni Pernicone, da quando sono stato giocatore nel Messina (stagione 1973-74 ndr) – precisa – lo sanno tutti che Pernicone bazzica in quell’ambiente da trent’anni. Io mi ricordo che gestiva i parcheggi attorno allo stadio, forse abusivamente, e comunque il fratello Giacino ha avuto un ruolo nel settore giovanile molti anni fa. Ma ribadisco che da presidente non ho ricevuto alcuna richiesta, in ogni caso per fare il servizio sicurezza servono i titoli e lui non li ha».

Proprio Pernicone è titolare della cooperativa sociale Angel, sequestrata sempre nell’ambito dell’operazione Mattanza. Attraverso questa società avrebbe gestito i servizi di sicurezza in occasione dei concerti di Emma e degli Afterhours nell’estate del 2012 all’arena Villa Dante. Mentre un terzo evento, quello dei Planet Funk, saltò per problemi organizzativi. Per i tre concerti, come emerge dalle intercettazioni, il sodalizio mafioso avrebbe ricevuto la garanzia di ricavare 50mila euro. Una somma che invece alla fine si sarebbe dimezzata, sui 25mila euro, a causa di un calo nella vendita dei biglietti, scatenando il malcontento dei clan, non convinti della giustificazione. Al punto che uno dei presunti affiliati, Gaetano Nostro, avrebbe chiesto alla società organizzatrice – la Euphonya management di Pasquale Grasso – di «esibire la fattura dei concerti». 

Per pagare invece gli uomini della security scelti dalle famiglie mafiose, si sarebbe arrivati a un accordo non scritto. È lo stesso Grasso, interrogato dalla polizia, a spiegare «di aver affidato la gestione della sicurezza e del facchinaggio alla ditta Angel di Pernicone, con il quale aveva raggiunto un accordo solo verbale. Per ogni serata – si legge nell’ordinanza – sarebbe stato corrisposto un compenso che si sarebbe aggirato sui 1.500-2.000 euro. Il pagamento però era stato effettuato in contanti e nessuna fattura era stata rilasciata motivo per cui non vi era traccia né dell’accordo né del pagamento». 

Salvo Catalano

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