Maternità senza sbarre

FINALMENTE UNA LEGGE CHE TUTELA LE MADRI CON FIGLI MINORI PUR NON TRASCURANDO LA SICUREZZA PUBBLICA.

di Silvano Bartolomei

Da tempo mi occupo di detenzione e sovraffollamento carcerario, e di tutti quei problemi che affliggono i detenuti all’interno delle strutture carcerarie.
Questioni da tempo sollevate dalla Corte Europea del Diritti dell’Uomo, e per le quali l’Organismo Comunitario ci ha più volte sanzionato.
Esiste, tuttavia, un altro problema connesso alla detenzione, del quale poco si parla poiché coinvolge solo una minima parte dei reclusi, circa il 10%, ma che ritengo sia altrettanto importante, ed è quello delle detenute madri con evidenti risvolti di natura psico/affettiva nei confronti dei figli costretti a vivere una segregazione consequenziale.
In passato, alla fine del diciottesimo secolo, la carcerazione femminile veniva fatta espiare con intenti purificatori e risocializzanti all’interno delle cosi dette “case penali”, luoghi ove tali finalità erano perseguite.
Le strutture edificate perlopiù in campagna o, comunque, in zone lontane da centri abitati, erano rette da religiose che costringevano le recluse in sacrificanti turni lavorativi di ben 12 ore nell’adempimento di attività di cucito, ricamo, orticultura e cucina.
Ma quel che è più grave non era loro consentito di potere tenere i figli con se, ed in caso di parto in costanza di detenzione il nascituro veniva subito affidato, senza la possibilità di contatto alcuno con la madre.
Oggi la normativa, allontanandosi da quegli schemi restrittivi e penalizzanti per le detenute madri, affronta il tema con il duplice intento di punire la donna salvaguardando la madre.


Praticamente, una normativa che è riuscita a coniugare sicurezza sociale non trascurando il legame affettivo ed il rapporto filiale.
Mi riferisco alla legge n. 62 del 21/4/2011 , entrata in vigore il 20/5/2011, che ha inteso valorizzare il rapporto tra figli minori e madri, allorquando queste ultime si trovano in stato di privazione della libertà personale.
Una legge di pochi articoli, soltanto cinque, ma che esplica la propria efficacia sia nella fase processuale che in quella della esecuzione della pena.
Una normativa che, modificando il codice di procedura penale e l’ordinamento penitenziario, ha mostrato quanto sensibile sia stato il legislatore nell’affrontare il tema.
Nello specifico la legge , infatti, modificando l’articolo 275 del c.p.p., ha previsto un aumento da tre a sei anni l’età del bambino, al di sotto della quale non può essere richiesta la custodia cautelare in carcere, salvo particolari ed eccezionali esigenze, estendendo al padre tali benefici allorquando la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, facendo prevalere, anche in questa ipotesi, le esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari.
Peraltro, la normativa in vigore con un nuovo articolo (285 bis c.p.p.) ha introdotto una particolare figura di custodia cautelare in carcere presso i cosiddetti Istituti Custodia Attenuata per detenute Madri, che pur assicurando l’espiazione della pena, consentono il mantenimento di un adeguato legame genitoriale. Gli I.C.A.M. sono, infatti, strutture carcerarie che non serbano le caratteristiche di tale edilizia, le aperture appaiono senza sbarre ed il personale che vi opera non indossa la divisa.
Un ulteriore contributo al rapporto madri/figli è stato dato con dei correttivi all’ordinamento penitenziario ed in questa ottica, l’art 21 ter, rubricato “visite al minore infermo”, consente alla madre condannata (o al padre) di visitare il figlio che versi in imminente pericolo di vita o, comunque, versi in gravissime condizioni di salute, previa autorizzazione del giudice o, in caso di urgenza, del direttore dell’istituto.
Il legislatore ha, inoltre, previsto la possibilità di accudire il minore durante le visite specialistiche, attraverso l’istituto con la “detenzione domiciliare speciale” .
Con la vecchia disciplina, il legislatore prevedeva che in mancanza di presupposti per l’applicazione della detenzione domiciliare, ed in assenza di un reale pericolo di reiterazione di reati, al fine di mantenere il rapporto madre figlio, le detenute potevano espiare la pena nella propria abitazione o, in alternativa, in centri di assistenza, accoglienza o luoghi di cura, dopo avere espiato almeno un terzo della pena o 15 anni in caso di condanna all’ergastolo.
Oggi la citata normativa, sempre nell’ottica di mantenere, favorire e consolidare il rapporto tra le detenute ed i figli, consente di espiare sia il terzo della pena o i 15 anni in, caso di ergastolo presso centri di custodia attenuata (ICAM), o, alternativamente, in luoghi di cura, assistenza accoglienza, purché non vi sia pericolo di recidiva o di fuga.
E’ bene precisare, comunque, che tale normativa non potrà trovare applicazione nei confronti di condannate per reati di particolare allarme sociale, i cosi detti “reati ostativi”, elencati all’art. 4 bis del regolamento penitenziario, e le detenute saranno sottoposte ad un regime ordinario.

Redazione

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