Mare chiuso, volti e storie dei respingimenti «L’imbarbarimento della nostra civiltà»

«Dobbiamo smetterla di pensare che i migranti sono tutti dei disperati con il sogno italiano. Sono persone che si informano e che molto volentieri chiederebbero asilo altrove. Perché in Italia, magari ti danno i documenti, ma poi ti lasciano per strada». Quando alle coste mediterranee è possibile arrivare. Un viaggio spesso interrotto a metà, prima dello scoppio della guerra in Libia, a causa dei respingimenti voluti dal governo italiano. Viaggi di ritorno in cui nessun giornalista o testimone esterno è mai stato ammesso. E di cui restano solo le testimonianze dei protagonisti, raccolte nel lavoro di Andrea Segre – autore del documentario Come un uomo sulla terra – e Stefano Liberti, giornalista e scrittore. E’ Mare chiuso, il documentario che verrà proiettato per la prima volta a Catania il 17 maggio al cinema King, in una serata organizzata da Cine Studio, CTzen e Centro Astalli. Per parlare di immigrazione con testimonianze dirette e analizzare il ruolo – non sempre positivo – dell’informazione. «Che troppo spesso, con le sue autocensure, ha alimentato la demagogia della politica sul tema», continua Andrea Segre.

Tutto parte dai dati, secondo i due autori. Nell’anno di maggiore affluenza, spiegano, sulle cose siciliane sono stati in circa 30mila a sbarcare dall’Africa. «Niente a che vedere con le milioni di persone annunciate dal governo», commenta Segre. Che pure – nel 2009 guidato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi – ha messo in moto un costoso piano di difesa. «”Colpa di voi giornalisti che avete creato l’allarme e adesso noi dobbiamo agire”. Così mi hanno risposto alcuni funzionari del ministero dell’Interno», racconta Liberti. «Pura demagogia politica» invece per Segre: «Alimentare la paura per la diversità è il modo migliore per guadagnare consensi. Tutti hanno paura di qualcosa, basta suggerire loro un bersaglio». I migranti, appunto. Così, con un accordo con l’allora massima autorità libica Muammar Gheddafi, il governo italiano ha messo a punto la tecnica dei respingimenti: bloccare i barconi ancora prima del loro arrivo e, senza nessuna identificazione, rispedire i loro passeggeri in Libia. Una volta arrivati, i migranti venivano rinchiusi in dei campi non così diversi – nei loro racconti – dai campi di concentramento. Con lo scoppio della guerra libica, però, tutto è cambiato. La maggior parte sono fuggiti, chiedendo riparo nei campi per rifugiati allestiti nei Paesi vicini. Come quello di Shousha, in Tunisia, dove Segre e Liberti hanno incontrato un gruppo di eritrei e somali e raccolto le loro storie.

Ci sono uomini e donne – poche – che hanno tentato il viaggio da soli. Ci sono poi le famiglie, alcune spezzate, come quella che fa da filo rosso all’intero documentario. «La storia di una donna, incinta, che parte da sola verso l’Italia. E quella del marito che dovrebbe raggiungerla poco dopo, ma viene respinto – racconta Liberti – Passano due anni e mezzo in cui quest’uomo non ha mai visto sua figlia. Ottiene tutti i documenti per il ricongiungimento, manca solo il visto». Una situazione che, dopo più di due anni di inadempimenti, riuscirà a sbloccarsi «all’italiana, con una telefonata». Ma quella giusta. In mezzo, i racconti dei migranti, con la tecnica del video partecipativo: «Le persone raccontano la propria storia nella propria lingua, per non spezzare un racconto che è anche emotivo e che spesso diventa un dialogo con se stessi», spiega Segre. Dopo, con l’aiuto di diversi interpreti, i racconti sono stati sottotitolati in italiano. Ed è proprio la lingua un passaggio fondamentale delle varie storie. «I militari italiani, all’inizio, riescono benissimo a farsi capire dai migranti – spiega Segre – Quando ricevono la telefonata con l’ordine di respingimento, invece, fingono all’improvviso di aver dimenticato l’inglese». Nessuna spiegazione, nessuna possibilità di chiedere asilo.

E non è certo migliore la prospettiva di chi invece riesce ad arrivare in Italia. «I migranti devono chiedere asilo nel primo Paese in cui arrivano che, per questioni geografiche, dall’Africa è ovviamente l’Italia – spiega Segre – Dopo, in base alla convenzione di Dublino, sono costretti a restare qui». In un Paese che non ne favorisce l’inserimento e privo di una reale struttura di accoglienza. «La soluzione non può certo essere quella di disseminare Cara in posti assurdi, tra cui Mineo, fuori dal mondo – aggiunge Liberti – Tanto che, in Germania, alcuni giudici hanno deciso di non attivare la convenzione e far passare dei migranti che avevano chiesto asilo ne nostro Pese, perché non adeguatamente protetti». Mancanze per cui l’Unione europea ha più volte richiamato e sanzionato l’Italia, con un programma di accoglienza per appena 3.500 persone e mai esteso a 25mila, come promesso. «L’Italia è riuscita soltanto a dare delle persone in mano a dei torturatori – conclude Segre – L’esempio più alto di imbarbarimento della nostra civiltà».

[Foto di Simone Falso]

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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