Non ci sono prove sufficienti a dimostrare che Calogero Mannino sia stato l’ispiratore della cosiddetta trattativa Stato–mafia. Sono queste le motivazioni che hanno spinto la Gup di Palermo, Marina Petruzzella, ad assolvere l’ex ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno del governo Andreotti per non aver commesso il fatto. Per la magistrata, in particolare, a risultare fragili sono state le fondamenta su cui si basa l’intero castello accusatorio: le dichiarazioni di Massimo Ciancimino e il presunto papello consegnato dal figlio di don Vito agli investigatori nell’ottobre del 2009 con le richieste di Cosa nostra per interrompere la stagione delle stragi. Il documento, «che è stato fornito solo in fotocopia», come si legge nelle oltre 500 pagine prodotte dalla giudice Petruzzella, sarebbe frutto di una «grossolana manipolazione» da parte di Massimo Ciancimino, di cui viene sottolineata «l’assenza di coerenza» e «la strumentalità del comportamento processuale».
Il comportamento del figlio dell’ex sindaco di Palermo, secondo quanto riportato nelle motivazioni, sarebbe stato finalizzato solo a «tenere sulla corda i pubblici ministeri» con la promessa di consegnare il papello per «tenere sempre alta su di sé l’attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo». A rendere inattendibile il documento ci sarebbe l’impossibilità di verificare chi l’abbia realmente scritto: «La polizia scientifica ha escluso che il manoscritto fosse di Riina, di Ciancimino o di qualcuno dei soggetti presi in considerazione per le comparazioni grafiche». Impossibile, inoltre, datare il documento, trattandosi appunto di una copia.
Per la Gup le ultime deposizioni di Giovanni Brusca e dello stesso Massimo Ciancimino durante il processo alla presunta trattativa, a cui si ricollegano i comportamenti contestati a Mannino, sarebbero inattendibili. Non c’è prova, dunque, che l’ex ministro sia stato portavoce del messaggio di Cosa nostra alle istituzioni, servendosi come tramite dei due ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. Mannino aveva paura, sapeva di essere nel mirino della mafia, e «in tale contesto – continua la giudice – si rivolse al maresciallo Guazzelli e quindi a Subranni, Mori, a Contrada e altri per ottenere protezione». Per quanto riguarda tuttavia un suo ruolo attivo all’interno del sistema di minacce di Cosa nostra nei confronti del Governo, mancherebbe una «comprovata volontà di partecipazione dolosa al crimine». Secondo la giudice Petruzzella, infatti, le responsabilità sarebbero da attribuire a chi intendesse «trattare per far cessare l’attacco stragista ove ciò implicasse la consapevolezza e la volontà di partecipazione al ricatto della prosecuzione della linea stragista» e non a chi «pur volendo in qualche modo assecondare le pretese mafiose, non intendesse condividere l’elemento essenziale della minaccia della prosecuzione delle stragi».
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