Mamat, dal Gambia viaggio infernale per fare il sarto Prigioniero per mesi in Libia: «Lì non esiste la legge»

«Credo di essere portato, di avere il cucito nel sangue». Diventare un sarto, per il diciassettenne Mamat Jeng, è il sogno di una vita, un amore grande verso quello che per lui non è solo un mestiere. Per inseguirlo ha deciso di lasciare il suo paese d’origine, il Gambia. Un’avventura allo sbaraglio, senza molti soldi in tasca e senza nessun familiare al suo fianco, che lo porta fino a Palermo, dove vive ormai da un anno e mezzo. A motivarlo è la voglia di cambiare vita, ma solo fino a un certo punto. Mamat, infatti, il sarto lo fa già anche in Gambia, dove per raccogliere un po’ di credito ha studiato per anni. Ma capisce presto che se vuole raggiungere livelli importanti, deve andare via. Mette qualcosa da parte lavorando e si butta in quest’avventura pur sapendo che dovrà presto fermarsi per raccogliere altri soldi.

Il primo stop, infatti, è nel Mali, dove è costretto a mettere momentaneamente da parte il suo sogno per racimolare qualcosa. Si adatta a qualsiasi mestiere, dal lavapiatti al magazziniere, fino a quando può ripartire. Arriva in Burkina Faso e poi da lì viaggia fino alla Libia, dove va incontro a un altro stop. Ma a deciderlo, questa volta, non è lui. Sono un gruppo di trafficanti, che lo incontrano per strada mentre cammina alla ricerca di un nuovo lavoro per potersi imbarcare. «Mi hanno tenuto per sei mesi dentro a una prigione – racconta – Non erano poliziotti, non c’è la legge lì né uno Stato. È un tipo di mafia». Insieme a lui imprigionate ci sono oltre cento persone, «troppe, troppe», continua a dire scuotendo la testa. Ma a chiedergli cosa gli sia successo, durante quei sei mesi, cambia espressione, il suo sorriso sparisce e gli occhi si velano di lacrime. «Non mi hanno trattato bene, non riesco a raccontarlo, fa ancora troppo male», taglia corto.

In questi sei mesi, però, della sua prigione impara a conoscere tutto, comprese le assenze e le distrazioni dei suoi aguzzini. E per liberarsi scappa via. «Solo così potevo andare via», ammette. Si rifugia a casa di un amico, sempre lì in Libia, dove riprende a lavorare per racimolare il necessario per salire a bordo di un barcone alla volta dell’Europa. E ci riesce. Viaggia in mare per due giorni, insieme ad altre centodieci persone, alcune disperate, altre stimolate dalla stessa voglia di avventura e di una vita migliore che spinge Mamat. «In mare non avevo paura – rivela -. Insomma, dopo sei mesi di prigionia, di cosa dovevo avere paura?». Una volta messo piede a Palermo, il suo primo pensiero è sempre quello: cucire. «Ho detto subito cosa sapevo fare, che studi avevo fatto, qual era il mmio sogno. E subito, grazie agli operatori delle comunità, ho potuto mettermi alla prova».

Fino ad arrivare alla Sartoria sociale di via Caselliinaugurata la settimana scorsa in un ex bene confiscato alla mafia. «Ho realizzato le fodere per ricoprire i cuscini, borse e zaini. Circa il 90 per cento della merce adesso in vendita vanta il mio contributo, le mie mani – dice con orgoglio -. Palermo mi piace molto, anche se ancora non ho tantissimi amici del luogo, ma solo altri migranti come me». Alle prese con lo studio dell’italiano e dell’informatica, oltre che delle tecniche di cucito da affinare, non si concede troppo tempo per andare in giro. Ma il prossimo obiettivo, messo lì in attesa dopo quello di realizzarsi professionalmente, è di snetirsi più palermtano che mai. «Lo sono perché al momento sono qui, vivo qui, vivo questa città. Spero presto di poter vivere anche della sua gente», conclude con un sorriso. 

Silvia Buffa

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