Mafia, un processo per i quattro delitti di Carini Teste ci ripensa: «Non vidi nessuno quel giorno»

«Io ho visto attipo un’ombra, forse c’era qualcuno a lato». Diceva così agli inquirenti Salvatore Gelardi all’indomani della scomparsa del cognato, Giuseppe Mazzamuto. Dichiarò che quel giorno, era il 26 aprile 1999, le loro auto si incrociarono all’altezza della Maia, un’azienda di Carini che all’epoca vendeva trattori e mezzi agricoli, chiusa un paio di anni fa. Ma fu un attimo, il tempo di scambiarsi un colpo di clacson. Davanti ai giudici della seconda corte d’assise di Palermo, però, oggi il suo racconto di quel pomeriggio s’è fatto più incerto, complici anche i 17 anni trascorsi. Un unico processo per quattro delitti in realtà: a quello di Mazzamuto, infatti, si aggiunge quello di Antonino Failla – secondo i racconti del pentito Nino Pipitone i due sarebbero stati uccisi insieme a una riunione di mafia, poi chiusi dentro un’automobile successivamente schiacciata, ridotta a un cubo di lamiere e poi seppellita – e quelli di Francesco Giambanco, strangolato, e di Giampiero Tocco, rapito davanti alla figlia di sette anni, poi strangolato e disciolto nell’acido.

In mezzo ai «Non ricordo» di Gelardi però, c’è spazio anche per quella che sembra quasi una marcia indietro. E sul fatto o meno che accanto al cognato potesse esserci qualcuno sulla sua Fiat Uno adesso mette le mani avanti. «Non ho visto nessuno accanto a lui quel giorno in macchina», dice al pm Roberto Tartaglia. Intanto gli avvocati difensori, che gli ricordano quanto dichiarato invece nel ’99, a quattro giorni dalla scomparsa del cognato lo mettono alle strette. I carabinieri lo convocano per mostrargli un’auto abbandonata e carbonizzata in contrada Roccarossa a Carini e rispetto a quell’episodio le sue parole sono ben diverse: «Ho riconosciuto la vettura immediatamente per via di alcune ammaccature sulla fiancata destra, un faro destro anteriore legato con un filo di ferro e altre ammaccature nel cofano. Senza ombra di dubbio quella è l’auto di mio cognato», sono le sue parole nel 1999. «L’ho riconosciuta come una Fiat Uno, e basta, altro non so», dice invece oggi sul banco dei testimoni.

Mentre parla, le discrepanze con la versione rilasciata diciassette anni prima continuano. E se nel ’99 i loro rapporti erano così frequenti che i due spesso mangiavano insieme, oggi anche su questo punto il racconto del teste appare diverso: «U virieva ‘na vota tanto, “come stai e come non stai”, così. Non avevo molta confidenza con lui, era fratello di mia moglie e tra loro non c’era un buon rapporto, non si vedevano spesso». Prima di lui a testimoniare è Fabiola Raffagnino, vedova di Failla, sparito lo stesso giorno di Mazzamuto. «L’ultima volta che l’ho visto era proprio il 26 aprile ’99, fino a dopo pranzo, erano circa le 14.30. Poi è uscito come di consueto per andare in campagna a dare da mangiare agli animali. Non l’ho più visto né sentito», racconta la donna. Quel giorno, quando a pomeriggio inoltrato non lo vede arrivare, inizia a cercarlo al telefono, ma il marito non risponde.

Il cognato, Vito Failla, va a cercarlo in campagna, ed è lì che trova l’auto parcheggiata del fratello. «Appariva tranquillo, ma è andato a controllare lo stesso perché ha capito che ero molto preoccupata – continua la donna -. Il mio primo pensiero onestamente fu che lo avessero arrestato, che magari si trovasse in qualche commissariato. Ho chiamato il nostro avvocato, ma non risultava nessun arresto. L’ho aspettato fino a tarda sera. Quasi subito ho saputo anche di Pippo – (Mazzamuto … ndr) – che anche lui non si trovava, era un cugino alla lontana della madre di mio marito, erano in buoni rapporti ma non credo che lavorassero insieme». Si continueranno a sentire i testimoni dell’accusa alla prossima udienza, fissata a maggio

Silvia Buffa

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