Summit mafiosi in uno studio legale e boss al 41bis che comunicavano tra di loro tramite agenti infedeli. Così si sarebbero riorganizzati i clan della Stidda. Le indagini, avviate nel 2018, hanno portato oggi al fermo di 23 persone per associazione mafiosa, concorso esterno, favoreggiamento e tentata estorsione nell’ambito dell’operazione Xydi. Le attività investigative hanno consentito di documentare l’attuale operatività delle famiglie di Canicattì, Campobello di Licata, Ravanusa e Licata e individuarne gli esponenti di maggiore rilievo. Tra gli altri sono emersi i nomi di Giuseppe Falsone (ergastolano campobellese epicentro del potere mafioso di Canicattì); Calogero Di Caro (capo del mandamento); Giarcarlo Buggea (organizzatore del mandamento) e Luigi Boncori (capo della famiglia di Ravanusa).
Studio (il)legale.
La nota avvocata penalista 50enne Angela Porcello, oltre a essere la compagna di Giancarlo Buggea, in passato ha difeso Falsone e altri capomafia dell’Agrigentino. Per molti mesi avrebbe messo a disposizione il proprio studio legale per incontri tra i boss. Attraverso le cimici, gli investigatori del Ros e i pm della Dda di Palermo, hanno potuto assistere in diretta riunioni e incontri di Cosa nostra e della Stidda. In particolare, nello studio – ritenuto un luogo non soggetto a investigazioni – si sarebbero dati appuntamento il capocosca di Canicattì, quelli della famiglie di Ravanusa (tra cui Luigi Bonocori), Favara (come Giuseppe Sicilia) e Licata (tra cui Giovanni Lauria), Simone Castello un uomo d’onore di Villabate (Palermo) e fedelissimo di Bernardo Provenzano e Antonino Chiazza, un esponente della rinata Stidda. Dismessa la toga, Porcello avrebbe assunto il ruolo di mediatrice e organizzatrice del mandamento mafioso di Canicattì.
Carcere (non troppo) duro.
Boss al 41 bis, il carcere duro, ma in grado di comunicare tra loro e all’esterno grazie alla complicità di agenti della polizia penitenziaria. Tra gli indagati, sono finiti infatti anche cancellieri, un ispettore di polizia e agenti della polizia penitenziaria (accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d’ufficio) che avrebbero permesso a tre boss di Agrigento, Trapani e Gela di mandarsi messaggi a distanza. Falsone avrebbe sfruttato anche l’aiuto dell’avvocata che avrebbe ricevuto le lettere sue e degli altri due – senza che venissero sottoposte a censura – e avrebbe poi inviato le risposte ai boss detenuti a Novara. Così i tre sarebbero anche riusciti a saldare alleanze tra cosche di territori diversi. Dall’indagine è emerso che un agente in servizio nel carcere di Agrigento, durante un colloquio tra Falsone e l’avvocata Porcello, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro. Durante l’inchiesta, è stata anche intercettata una telefonata di un agente di polizia penitenziaria in servizio ad Agrigento all’avvocata indagata: i due avrebbero parlato di un assistito della legale, detenuto in cella per mafia. L’agente l’avrebbe informata che il suo cliente l’indomani sarebbe stato spostato in aereo in un altro carcere.
Il business dell’uva e il progetto omicidiario.
Oltre al generalizzato controllo della criminalità comune, significative sono le infiltrazioni di Cosa nostra e della Stidda nelle attività economiche: in particolare nel controllo e nello sfruttamento delle transazioni per la vendita di uva e di altri prodotti ortofrutticoli della provincia di Agrigento che, oltre a garantire rilevantissime entrate nelle casse delle organizzazioni, permetteva loro di consolidare il già rilevante controllo del territorio. È stato calcolato che la gestione delle mediazione commerciali fruttava il tre per cento sulle transazione, molti milioni di euro. Affari che sarebbero stati gestiti dal triumvirato costituito dagli uomini d’onore Giancarlo Buggea, Giuseppe Giuliana e Luigi Boncori, su mandato di Calogero Di Caro. In tale quadro, è stato pure sventato un progetto omicidiario organizzato dagli esponenti della Stidda ai danni di un mediatore e un imprenditore che non avevano corrisposto – a titolo estorsivo – all’associazione mafiosa parte dei guadagni realizzati con le loro attività.
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