«Quante volte vuoi chiamare il fabbro per riparare le serrature?». È questa la frase che avrebbe pronunciato Fabio Bonanno, arrestato la scorsa notte nel blitz che ha sgominato la cosca di Borgo Vecchio, al proprietario di un negozio di alimentari nei pressi della via Libertà. Pochi giorni prima di quella frase che l’emissario di Cosa nostra avrebbe pronunciato in fretta, allontanandosi subito, il commerciante aveva trovato le serrature delle saracinesche della sua bottega intrise di colla. Lì per lì non capisce, rimane interdetto. È originario del Bangladesh, lui, e non sa che a Palermo trovare l’attack dentro a un lucchetto ha un significato inequivocabile. Significa che è arrivato il momento di rendere il tuo personale tributo a Cosa nostra.
Chiama un fabbro e fa riparare tutto. Ma Bonanno continua a presentarsi nel suo negozio e a chiedere se lo avesse chiamato. «No», risponde l’uomo. Una, due, tre volte. Poi quella frase che fuga definitivamente ogni dubbio. Il proprietario non sa come comportarsi, cerca conforto in un connazionale, che senza giri di parole gli dice di pagare per non avere problemi. La richiesta è di 200 euro, ma sono troppi per lui. Allora contratta e riesce a fare scendere la tangente a 50 euro, da versare dopo il 15 di ogni mese. E lui obbedisce per tre volte.
Non è il solo, tra i suoi connazionali, a subire le richieste di pizzo e le minacce della famiglia della zona. Prima di lui, infatti, nel 2014 era toccato al proprietario di un ristorante indiano. E il copione è tristemente identico. «Un giorno nell’andare ad aprire il mio negozio, ho trovato nei due lucchetti di chiusura delle saracinesche della colla – racconta ai magistrati -. Dell’accaduto non ho fatto alcuna denuncia». Anche lui è spiazzato, ma qualcosa intuisce e lo spaventa. Si confida proprio con Bonanno, che tempo prima gli aveva detto di cercarlo in caso di problemi. E il commerciante esegue: «Mi disse che per non avere problemi dovevo versare la somma di 150 euro, denaro che io ho dato, a una persona diversa, come offerta per la festa rionale», questo quanto ricostruito davanti agli inquirenti che sono risaliti a lui e a molti altri imprenditori della zona, che negli anni sono stati vittime del giogo estorsivo imposto da Cosa nostra e che, convocati, hanno ammesso quanto subìto.
Il 26 giugno 2011 tocca ad altri tre stranieri, bengalesi anche loro. Ma questa volta non c’è nessuna colla di mezzo né scuse fittizie di feste di quartiere. Si passa direttamente alle maniere forti e in quattro, secondo le ricostruzioni delle vittime e dello stesso ex boss della famiglia Giuseppe Tantillo, fanno irruzione in un appartamento al primo piano. Sono le due di notte, dentro tre persone vengono svegliate da ladri travestiti e armati di pistola e coltello. Imbavagliano un ragazzo, gli rubano cinquemila euro e sparano al coinquilino, dandosi alla fuga. Ma a garantire le entrate maggiori alle famiglie mafiose alla fine è sempre il buon vecchio pizzo. E qualcuno, per i padrini finiti in cella la scorsa notte, sono clienti e vittime affezionate. Come il proprietario di una pompa di benzina vicina all’Ucciardone, che paga il suo tributo per ben quindici anni, dal 2002 al 2017: «Conosce Tantillo Giuseppe?», gli domanda il pubblico ministero nel 2016.
«Sì – è la sua risposta -, lo conosco per vicende spiacevoli che mio malgrado adesso sono costretto a raccontarvi, poiché intuisco il motivo della mia convocazione qui. Anche se sono ripetitivo, ribadisco la mia paura a dirvi tutto quello che è accaduto per timore di eventuali ritorsioni». E fa partire il suo racconto, dal primo incontro, con un uomo che gli dice di «rappresentare la chiesa», all’ultimo. Comprese le minacce e ritorsioni quando, ormai contattato e controllato dai carabineri, aveva provato a metterci un punto. «Le persone a cui dare i soldi cambiavano nell’ordine in cui venivano arrestate». Un ciclo, quindi, che nemmeno la galera riesce a stroncare del tutto. Uno degli ultimi, in ordine di tempo, sarebbe sempre lui, Fabio Bonanno. Per intimidirlo, secondo gli inquirenti che si sono avvalsi delle immagini riprese dalle telecamere installate nella pompa di benzina, si sarebbe anche avvalso in due occasioni dell’aiuto di un giovanissimo, minorenne all’epoca dei fatti, che avrebbe chiuso con una catena e un lucchetto le inferriate dell’ufficio vendita del distributore e intriso di colla le serrature.
Un adolescente finito anche lui, da questa mattina, dietro le sbarre del carcere minorile Malaspina e l’accusa, per uno che alla sua età dovrebbe pensare a cose ben diverse, è di estorsione continuata con l’aggravante di aver agito per favorire Cosa nostra. Simile la vicenda del titolare di un’ottica: la sua è una delle attività segnate nel libro mastro, «Occhiali 200». «Si è presentata una persona dall’aspetto giovanile, piuttosto robusto e corpulento – racconta, convocato dai magistrati -. Ho capito subito che si trattava di pizzo, ho spiegato che non intendevo versare alcuna somma perché ero tenuto sotto controllo, dopo le dichiarazioni di Chiarello. Mi sentii rispondere che sapeva tutto, che era stato incaricato di venire comunque da me, per poi salutarmi con un bacio e andare via». Segue un periodo di calma apparente, poi il proprietario cede la gestione del negozio a una collega e con lei riprendono le intimidazioni. «Non ho parlato per quieto vivere», «non volevo avere problemi», «avevo paura, temevo ritorsioni fisiche o materiali»: è questo quello che, interpellate, ha dichiarato ai magistrati la maggior parte delle vittime, rintracciate partendo proprio dai pizzini e dai manoscritti dei Tantillo.
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