«Dopo il silenzio del ministero dell’Interno non mi rimane che darmi fuoco». Ignazio Cutrò, l’imprenditore di Bivona testimone di giustizia, alza il tiro della sua protesta e annuncia di voler «chiudere i conti» giovedì pomeriggio a Palermo, in piazza Tredici vittime. «Penso che cinque litri di benzina basteranno», dice. È l’ultimo disperato grido di aiuto, di fronte all’impossibilità di far fronte alle richieste delle banche e della Serit. «Ieri sono scaduti i 15 giorni che mi erano stati concessi – racconta – arriverà adesso il decreto ingiuntivo, mi chiedono 540mila euro, sono tutti danni che mi ha arrecato la mafia e ci sono due perizie del ministero che lo attestano, ma nessuno fa niente di concreto».
Cutrò all’inizio degli anni 2000 contribuì con le sue denunce all’arresto dei fratelli Panepinto – Luigi, Marcello e Maurizio – ritenuti appartenenti a Cosa Nostra agrigentina. Pagando con intimidazioni e pesanti danneggiamenti alla sua azienda. «Due perizie, nel 2011 e nel 2012, fatte fare dal ministero dell’Interno attestano che non ho detto falsità, che i danni che ho subito sono direttamente riconducibili alle mie denunce. Ma quei documenti sono rimasti nei cassetti del ministero». Il tutto nonostante recentemente anche la commissione nazionale antimafia si sia occupata della vicenda dell’imprenditore di Bivona.
Una boccata di ossigeno è arrivata con l’approvazione della legge che consente l’assunzione dei testimoni di giustizia nella pubblica amministrazione. Cutrò ha scelto di restare nel suo paese e da ottobre lavora al centro per l’impiego di Bivona. «Ma con i 1.280 euro mensili di stipendio dovrei pagare i danni della mafia? Non è giusto». Cutrò aspetta ancora un intervento da parte del ministero dell’Interno per coprire mutui non onorati e caselle esattoriali, in questi anni lievitati a causa degli interessi. «Mi hanno fatto pagare le mie proteste – denuncia – la nascita dell’associazione nazionale testimoni di giustizia, mi hanno rubato il mio sogno di diventare un imprenditore libero e siciliano».
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