L’ascesa criminale di Giuseppe Pellegrino, destinatario ieri di un sequestro di beni del valore di cinque milioni di euro, viene ricostruita nelle pagine del decreto emesso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Messina. Una parabola crescente che vede i magistrati definire Pellegrino, insieme ai fratelli Nicola e Domenico, persone che «senza essere inserite nella struttura organizzativa di un sodalizio criminale e costituire un autonomo gruppo criminale, hanno operato nell’ambito della loro attività imprenditoriale d’intesa con esponenti mafiosi». In particolare con due boss messinesi: Luigi Sparacio, prima, e Giacomo Spartà, dopo.
Una condotta che i magistrati fanno rientrare nella categoria delle attività di «collusione» degli imprenditori entrati in un rapporto di cointeressenza con le cosche mafiose dell’epoca. In particolare si legge nelle carte «hanno agito all’esterno con la consapevolezza e la volontà di fornire un contributo causale alla conservazione e al rafforzamento dell’associazione, nonché alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso, ponendo in essere condotte qualificabili in termini di concorso esterno all’associazione mafiosa, anziché di partecipazione all’associazione». I tre fratelli Pellegrino non erano un’associazione a se stante, ma servendosi della loro fama criminale sono riusciti a esercitare «un pressante controllo per più di un ventennio sulle principali attività economiche del territorio messinese», affiliandosi di volta in volta «con le più importanti famiglie mafiose operanti negli anni Novanta nel comprensorio». Ed è per esempio proprio sfruttando la vicinanza ai clan che hanno incrementato l’attività imprenditoriale nel settore del movimento terra.
Giuseppe Pellegrino, a differenza dei due fratelli, viene ritenuto dai magistrati «soggetto attualmente pericoloso perché mai dissociatosi dal contesto mafioso di riferimento dalla cui vicinanza ha tratto e continua a trarre illeciti profitti». A confermarne la caratura criminale sono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. In particolare Salvatore Centorrino ripercorre l’ascesa criminale dei Pellegrino. I fratelli iniziarono la loro carriera come rapinatori quando, negli anni ’90, Giuseppe e Domenico entrarono a far parte del clan Sparacio. Il fratello Domenico vi entrò successivamente. Contestualmente Nicola e Giuseppe «camminavano» con Giacomo Spartà, insieme al quale avevano il controllo, tramite le estorsioni, della zona sud di Messina. Proprio in questi anni si inseriscono nel settore del movimento terra. E riescono a consolidare negli anni, dal ’90 e fino al 2005, il loro ruolo a tal punto che «gli imprenditori che venivano da fuori dovevano rivolgersi obbligatoriamente ai Pellegrino, per affidare i lavori di movimento terra e in tal modo poter lavorare in tranquillità».
Gli appaltatori che volevano lavorare a Messina sapevano di trovare la necessaria copertura. «Qualsiasi imprenditore che intendeva lavorare a Messina – spiega Centorrino – doveva obbligatoriamente rivolgersi alle imprese Pellegrino, altrimenti sarebbe incorso in problemi, ossia attentati ai cantieri». Questo valeva anche per le imprese legate alla criminalità organizzata di altre province, come Catania o Palermo, che sapevano di poter fare affidamento sui Pellegrino per i lavori di movimento terra. Dando per scontato che avrebbero provveduto a consegnare il due o tre per cento alle famiglie mafiose.
Ma Nicola e Domenico Pellegrino non rispettavano i patti. Sfruttavano i collegamenti mafiosi per lavorare, senza versare la quota alle cosche messinesi. È a causa di tale sistematico inadempimento, e con il permesso di Giuseppe «che riconosceva l’esistenza del debito maturato nel tempo», che nei confronti dei due fratelli era stato perfino organizzato un «attentato dimostrativo per intimidirli». Intimidazione che non fu portata a termine perché, nel frattempo, subentrarono altre urgenze. Nel caso specifico, l’attentato a Nino Spartà.
Altra testimonianza arriva da Gaetano Barbera, oggi pentito. Quando nel giugno 2005 arriva in carcere a Messina, decide – insieme al già citato Centorrino, Daniele Santovito, Angelo Bonasera e Marcello D’Arrigo – di dare vita a una serie di estorsioni e passare al setaccio la città. Per farlo vogliono i Pellegrino, detti Arancino. «Li volevamo prendere con noi, fare tramite loro le estorsioni quali: quella al porto di Tremestieri, i lavori per l’impianto del gas nella zona sud, l’autoparcheggio allo stadio, non ricordo se il Celeste o il San Filippo, quelle ai box dentro lo stadio San Filippo e per le pale eoliche a Faro Superiore», si legge nei verbali.
L’importanza criminale dei Pellegrino è, infine, riconosciuta anche dal collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto. D’Amico arriva a ritenerli addirittura «una familgia mafiosa a sé stante» con legami anche fuori provincia. «Conoscevano bene diversi personaggi di Catania, fra cui Castro Alfio Giuseppe, Piero ed Enzo Santapaola», racconta ai magistrati.
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