Mafia, i due avvocati e il carabiniere arrestati Laudani: «Nella famiglia ognuno fa la sua parte»

L’avvocato-postino del clan. Il collega che non li difendeva in aula, ma li aiutava. E il carabiniere che passava le informazioni. Almeno secondo i racconti di Giuseppe Laudani, nipote del boss Sebastiano, oggi diventato collaboratore di giustizia. Si tratta di Salvatore Mineo, Giuseppe Arcidiacono e Alessandro Di Mauro, presenti nel documento di 2672 pagine con cui il tribunale di Catania ha autorizzato l’arresto di 109 persone ritenute interne o vicine al clan Laudani. A Mineo e Arcidiacono viene contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Più la rivelazione di segreto d’ufficio per il primo. Di Mauro, invece, è accusato di avere effettuato un accesso abusivo alla banca dati delle forze dell’ordine per favorire il clan Laudani. «È tutto importante nella famiglia – spiega il pentito – Ognuno fa la sua parte, ognuno hanno il loro compito».

Salvatore Mineo, avvocato di Santa Maria di Licodia, viene nominato dallo stesso Giuseppe Laudani nel 2008. Secondo i racconti del pentito, oltre a difenderlo in aula, il legale «lo aggiornava di quanto succedeva a Paternò e teneva i rapporti con la squadra», facendo da postino. «Al carcere di Biccoca l’aula degli avvocati non viene perquisita – racconta ai magistrati – Io scrivevo lettere, neanche pizzini, proprio lettere». Che Mineo avrebbe poi consegnato a Enzo Morabito, a capo del gruppo paternese dei Laudani, tra appuntamenti, inviti al mare, cene a base di funghi e mazzi di fiori per il compleanno. 

L’avvocato – nominato difensore da quattro affiliati – sarebbe stato anche la scusa e il tramite per gli incontri in carcere, nella sala d’aspetto che precede gli appuntamenti con i legali di fiducia. «L’avvocato si metteva di lato, si fumava una sigaretta e noi parlavamo di tutto», spiega Laudani. A carico di Mineo ci sono anche i racconti della moglie di un affiliato che lo indica come la persona che avrebbe passato un documento riservato al marito. Documento che si trovava in una pen drive di un maresciallo dei carabinieri, misteriosamente scomparsa dal palazzo di giustizia di Catania e il cui contenuto è stato poi ritrovato nei computer di alcuni esponenti del clan.

«Lo stesso lavoro dell’avvocato Giuseppe Arcidiacono, che però lo faceva molto più ampio», continua Laudani. Secondo i racconti del collaboratore, il legale metteva a disposizione i suoi rapporti privilegiati con i carabinieri per ottenere un trattamento di favore nei confronti di Laudani. Il quale, a sua volta, forniva all’avvocato il denaro per ammorbidire i militari. «Io chiamavo l’avvocato Arcidiacono – racconta il pentito – lui veniva, entrava in caserma, gli dava mille, duemila euro e le macchine non erano sequestrate». Un tariffario che variava da 500 a tremila euro nel caso di informazioni da ottenere. Come quando Arcidiacono gli avrebbe fatto sapere del sequestro imminente di una sua azienda. E Laudani la vende prima che scattino i sigilli. «Un pazzo, una mina vagante. Chissà quale cazzata andrà a dire. Una psiche così sconvolta…», questa la descrizione che Arcidiacono fa del suo ex cliente non appena viene a sapere della sua decisione di collaborare con la giustizia.

Ma i pubblici ministeri cercano riscontri, specie sulla divulgazione di informazioni segrete. Così arrivano ad Alessandro Di Mauro, comandante della stazione dei carabinieri di San Giovanni la Punta, fino al 2007 in servizio ad Aci Catena. Comune, quest’ultimo, dove vive e ha il suo studio l’avvocato Arcidiacono. Quando i magistrati chiedono agli stessi carabinieri di verificare quante volte e perché il profilo di Giuseppe Laudani è stato cercato nella banca dati delle forze dell’ordine, i risultati sono numerosi. Ma, secondo la procura, la ricerca del comandante Di Mauro «non aveva alcuna esigenza diretta di indagine». Agli atti risultano invece frequenti contatti e la confidenza tra il militare e l’avvocato Arcidiacono. «Senti, appena hai qualche concerto per le mani fammelo sapere», gli dice il legale, intercettato al telefono. «Prima o poi ti chiameranno di notte», risponde il carabiniere. Ed «è evidente che i due non si riferiscono a un evento musicale», commentano i magistrati.

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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