Mafia, evoluzioni e contrasti nella relazione della Dia Fra tradizioni, nuove leve e lo spettro della violenza

«Cosa nostra testimonia ancora una pericolosa potenzialità offensiva, malgrado una politica di basso profilo e mimetizzazione». Lo scrive, nero su bianco, la Direzione investigativa antimafia nelle sue oltre 500 pagine di relazione inviate al Parlamento. Potenzialità che è ancora in grado di mostrare soprattutto Cosa nostra palermitana, malgrado i duri colpi incassati negli ultimi mesi. Malgrado, inoltre, l’analisi dei magistrati fotografi un’organizzazione «periodicamente costretta ad una forzata riconfigurazione organica, non sempre condivisa», dettata ora dall’arresto di soggetti apicali, ora dall’emergere di nuove leve («giovani “rampolli” che sono intenti a dimostrare capacità criminali che vadano ad aggiungersi al mero legame di sangue con i boss detenuti»), ma anche dalle scarcerazioni di ex vertici, basti pensare a quelle dell’anno scorso riguardanti il mandamento di Bagheria e quello della famiglia di Santa Maria di Gesù. E poi «fibrillazioni continue e contrapposizioni» e «una sensibile alterazione dei rapporti di forza e delle alleanze» all’interno di Cosa nostra priva per un lungo periodo di un organismo di direzione con pieni ed effettivi poteri operativi e strategici, da un punto di vista sia formale che sostanziale.

Quella Commissione provinciale che non si ricostituiva e riuniva dall’arresto di Totò Riina nel ’93 e che trova l’occasione solo dopo la sua morte, riunendo i capi dei maggiori mandamenti di Palermo e provincia nella famosa riunione organizzata l’anno scorso a maggio. Una Commissione che però non tutti sembrano volere. Specie chi, controllando insieme più territori, col rinato organo collegiale e di stampo fortemente oligarchico, vede messa a rischio la preziosa autonomia raggiunta negli anni. A scapito, è bene dirlo, anche della tradizionale coesione tra le consorterie. Tutti d’accordo, però, sul solito, sempiterno, punto: la gestione dei profitti per il funzionamento dell’organizzazione stessa. Le attività criminali più importanti, per Cosa nostra palermitana, restano nelle mani degli «anziani uomini d’onore, figure carismatiche cui, indipendentemente dalla carica ricoperta e pur in assenza di una formale nomina, viene diffusamente riconosciuta autorevolezza e pregnante influenza sul territorio». Uomini dal curriculum di un certo peso, insomma, come quello del 70enne Settimo Mineo, per citarne uno, arrestato a dicembre: per i magistrati a capo della nuova Commissione, mentre per i commercianti vicini alla sua gioielleria in corso Tukory solo un arzillo vecchietto in pensione*.

Anziani padrini, in molti casi, tornati alla carica una volta rimessi in libertà, intenzionati a riprendere il posto lasciato vacante con il loro arresto. Un meccanismo, tuttavia, per niente scontato. Qualcuno – vedi il boss Giuseppe Dainotti, freddato in via D’Ossuna nel 2017 poco dopo essere stato scarcerato – sembra aver pagato col sangue la smania dei bei vecchi tempi. E poi ci sono anche i nuovissimi, ma neanche troppo, che se da un lato si caratterizzano per la giovane età dall’altro portano sulle spalle l’eredità e la pesantezza di un cognome storico, vedi il neo arrestato Leandro Michele Greco. «Non può pure escludersi che capi emergenti, anche eredi di storiche famiglie, approfittino della situazione e cerchino spazi per scalare posizioni di potere. Non è anche da escludere che, alla luce della non chiara evoluzione del quadro descritto, le articolate dinamiche dell’organizzazione possano sfociare in atti di violenza particolarmente cruenti. Una possibilità, a dire il vero, finora non suffragata da indizi che facciano presagire una volontà precisa di ritornare a forme di conflittualità eclatanti. Cosa nostra si conferma, comunque, una struttura ancora vitale, dinamica e plasmabile a seconda dei mutamenti delle condizioni esterne». E il collante sono proprio quelle regole a cui di recente si è cercato di ritornare. Una fra tutte quella di individuare «picciotti sicuri», cioè appartenenti a famiglie di chiara tradizione mafiosa: «Verrebbero “recuperati”, ai vari livelli, associati storici e di provata credibilità ed affidabilità. Ciò, anche nella previsione che conflittualità finora latenti possano degenerare in nuove collaborazioni con la giustizia di affiliati, anche autorevoli».

Transizioni e rimodulazioni, quindi, la fanno da padrona dentro Cosa nostra palermitana, impegnata comunque a non tradire il classico ordinamento verticistico e unitario. Lo stesso che restituisce la recente fotografia del territorio, «suddiviso in 15 mandamenti (otto in città e sette in provincia), composti da 81 famiglie (32 in città e 49 in provincia)». L’attività principale resta il pizzo, da un lato strumento di approvvigionamento dei mandamenti e dall’altro di controllo del territorio. Con tutto quello che, da sempre, comporta: minacce, intimidazioni, soprusi e ritorsioni, che in genere non guardano in faccia nessuno. Ma nel giro d’affari c’è anche la droga. «Tradizionalmente, le strategie operative di Cosa nostra esprimono una particolare propensione anche verso il traffico di sostanze stupefacenti. L’organizzazione mafiosa siciliana opera, in tale ambito, in un sistema criminale integrato insieme ad ‘Ndrangheta e Camorra. La città di Palermo costituisce il bacino di approvvigionamento per l’intero territorio regionale – si legge nella relazione – ed il mercato continua ad essere gestito direttamente da sodali e/o personaggi contigui all’organizzazione mafiosa». Ma estorsioni e stupefacenti non sono certo una novità. Specie se paragonati al business degli ultimi anni, quello delle scommesse online, scoperchiato ad esempio con l’arresto di Benedetto Bacchi. «Tutti i mandamenti mafiosi sembrano interessati al settore, favorendo l’apertura di nuove agenzie di gioco».

Per non parlare, poi, degli intrecci fra criminalità mafiosa e istituzioni, basti pensare ai commissariamenti di Corleone e Palazzo Adriano, e della presenza sul territorio di bande criminali straniere, come la Black Axe, con base operativa nel cuore di Ballarò e dedita principalmente alla tratta delle prostitute e allo spaccio, tollerata da Cosa nostra, forse per l’indole spiccatamente violenta che avrebbe, in caso di contrasti, messo a rischio intere famiglie e mandamenti. «Cosa nostra, pressata da esigenze contingenti, e da sempre caratterizzata da un’opportunistica flessibilità, potrebbe essersi adattata alla nuova realtà evitando conflitti». «Non è dunque facile individuare le linee evolutive di Cosa nostra – recita infine la relazione -, né prevedere il nuovo ordine che l’organizzazione intenderà darsi e se tale apparato possa ricomprendere tutte le articolazioni provinciali, ognuna con differenti sfaccettature organizzative e operative».

Silvia Buffa

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