«La teoria dell’uomo di vetro è una concezione totalitaria, e si corre il rischio di identificare subito come sospetti coloro che non vogliono essere invasi nella loro sfera intima. Per questo abbiamo intrapreso tutte le strade possibili per impedire il sequestro delle liste dei nostri iscritti: non per tutelare il Grande Oriente d’Italia, ma per salvaguardare il diritto di ogni cittadino ad associarsi. “Oggi tocca a noi, ma domani toccherà ad altri“». Arriva a scomodare persino Bertolt Brecht il gran maestro Stefano Bisi che oggi ha spalancato ai giornalisti le porte della casa massonica di piazzetta Pietro Speciale, a Palermo. Tra spade, compassi, candelabri e tanti altri simboli massonici si è svolta la conferenza stampa, una scelta inusuale dettata dalla necessità di fare il punto sulla vicenda del sequestro deciso dalla commissione parlamentare Antimafia che, a inizio marzo, ha dato mandato allo Scico della guardia di finanza di procedere alla perquisizione della sede nazionale del Goi e di altre tre associazioni massoniche, con l’ordine di sequestrare gli elenchi dei loro iscritti dal ’90 a oggi in Calabria e Sicilia.
Il provvedimento è stato assunto in seguito alla mancata consegna degli elenchi più volte richiesti dalla Commissione e nasce dal rapporto tra Cosa nostra e massoneria, un legame su cui da tempo si sono concentrate le indagini che coinvolgono diverse procure. Rapporti che Bisi nega in modo ostinato rivendicando, allo stesso tempo, il diritto a mantenere segreta l’identità dei propri iscritti. «Sono venuto in Sicilia per parlare con i fratelli siciliani e per dare loro sostegno – esordisce durante l’incontro in uno dei tre ‘templi’ che si trovano al primo e secondo piano di un antico palazzo nel cuore del centro storico, alle spalle di piazza Bologni, dove si riuniscono tre logge siciliane -. Dopo il primo marzo, la commissione ha fatto sequestrare gli elenchi dei nostri fratelli. Mi ricordo che quel giorno ero a Lipari e scrissi alla commissione mettendomi a disposizione: venni chiamato subito e la prima cosa richiesta fu l’elenco dei 23mila fratelli. Non capivo il senso di questa esigenza perché a nessuna associazione vengono mai fatte richieste simili».
Poi un durissimo braccio di ferro che si conclude con la perquisizione della sede principale a Roma e il sequestro di tutti gli elenchi. «Abbiamo affrontato quei giorni con molto forza – ricorda – abbiamo costituito un collegio difensivo e abbiamo fatto un’istanza di revoca in autotutela a tutti i membri della commissione parlamentare antimafia. Abbiamo spiegato che il provvedimento era un atto arbitrario e illecito, che non potevano farlo e che se entro dieci giorni non avessero provveduto alla revoca, avremmo agito in sede giudiziaria. L’articolo 18 della Costituzione – prosegue Bisi – consente ai cittadini di associarsi liberamente e ci sentiamo in obbligo di tutelare questa libertà». Tra le accuse mosse in Commissione, anche la presenza di troppi massoni a Castelvetrano, elemento a cui l’organo parlamentare è particolarmente interessato sia in seguito agli sviluppi di alcune inchieste della Dda di Reggio Calabria sia dopo l’audizione della procuratrice aggiunta di Palermo, Teresa Principato, che ha raccontato della rete di protezione di cui gode il boss latitante Matteo Messina Denaro.
«Ci è stato detto che lì ci sono troppi massoni – rivela -, ma noi possiamo rispondere solo della loggia Francisco Ferrer che conta circa 25 fratelli. E poi perché c’è un assessore comunale fratello del Goi. Ma se un amministratore è bravo a tenere pulite le strade, che sia massone, dell’Arci, dell’Opus dei o di Azione cattolica credo che ai cittadini interessi poco». Ribadisce più volte la volontà di collaborare con la giustizia, ma proprio non accetta il nesso tra il sequestro degli elenchi e le indagini: «Non mi sembra che durante l’inchiesta per Mafia Capitale, che ha visto coinvolto sindacati e partiti, siano stati richiesti gli elenchi di sindacalisti e politici».
Eppure se i primi non hanno elenchi segreti, ciò è vero per le logge massoniche. Ma Bisi non ci sta e tira in ballo persino il fascismo, Stefano Rodotà e Antonio Gramsci: «Rodotà ha detto chiaramente che la trasparenza assoluta è tipica dei regimi totalitari – ribadisce -. Chi è iscritto a un’associazione deve avere il diritto di mantenere privata la propria affiliazione. A forza di chiedere il contrario, si rischia di armare la mano di qualche squilibrato. Bisogna stare attenti a non criminalizzare per categoria. Sono note le sedi, i dirigenti: i nomi li ha voluti l’inquisizione che ci ha mandato al rogo, Mussolini che ci ha fatto chiudere. Temo che questo sia l’anticipazione di qualcosa di peggio che verrà dopo, è sempre successo così e lo disse anche Gramsci in un famoso discorso alla camera dei deputati: “Sappiamo dove si comincia ma non dove si finisce”».
Sulle numerose inchieste aperte, il gran maestro glissa: «Di alcune sono a conoscenza, di altre no ma se ci sono lo sapremo, andranno avanti, vedremo se sono coinvolti fratelli del Goi. Ma perché si fa un indagine sulla mafia, anche se ce ne fossero 30-40 contemporaneamente, si devono chiedere gli elenchi degli iscritti? Non riesco proprio a capire». E quindi torna a scagliarsi contro la Commissione: «È andata oltre i suoi poteri perché non c’è una notizia criminis – ripete ancora -, oltre i limiti della sua legge istitutiva ed è per questo che ci opporremo in tutte le sedi. Noi lavoriamo in questi templi, la nostra è un’attività spirituale, di crescita interiore e ciò non vuol dire che non possano farsi cose buone per l’umanità intera».
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