Mafia e Chiesa, a 25 anni dall’anatema di Giovanni Paolo II Su Provenzano: «Chi sbaglia deve essere trattato con umanità»

Il valore della conversione e la possibilità che ciò possa avvenire anche nei mafiosi a venticinque anni di distanza dal monito lanciato dal santo Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento torna a riecheggiare nel documento pastorale firmato dai vescovi di Sicilia. Un dibattito promosso dall’università di Palermo in collaborazione con il comando della guardia di finanza e che si è tenuto nell’auditorium dell’istituto Gonzaga. La conversione di un mafioso non darà la vita ai morti, sottolineano i relatori, ma dev’essere essere promossa e incentivata. C’è un nesso tra il peccato e la pena detentiva della magistratura, perché magari il mafioso convertito potrebbe accettarla e non esimersi dall’espiarla.

«Voglio partire dal 1993, anno in cui la mafia ha espresso il suo potere colpendo lo Stato e la Chiesa, uccidendo il beato Puglisi – sottolinea monsignor Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo – È in quell’anno che Giovanni Paolo II disse il famoso Convertitevi. Il 9 maggio di 25 anni fa la comunità cristiana si riappropria del problema della mafia. È per questo che noi vescovi di Sicilia abbiamo pensato al documento pastorale nel segno di papa Francesco, per quello che ha detto in occasione della sua visita palermitana. Se si crede in Dio non si può essere mafioso, oggi abbiamo bisogno di uomini e donne di amore e non di onore. Ai mafiosi dico: cambiate, convertitevi al vero Dio, io dico a voi mafiosi se non fate questo la vostra vita andrà persa e sarà una sconfitta. Papa Francesco ha utilizzato la stessa parola, parlando di concesione – continua Lorefice – e quindi detenere un potere per fine di lucro non è ammissibile».

Ecco che la spinta alla conversione deve essere ribadita anche alla luce della mutazione della società e bisogna ripensare anche la comunità cristiana che possa incidere sulle coscienze. «I vescovi denunciano – sottolinea monsignore Michele Pennisi,arcivescovo di Monreale – la presenza della criminalità che spadroneggia in varie zone del Paese e condiziona l’economia del territorio fino a porsi a Stato alternativo a quello democratico. Mi è capitato quando ero stato a Piazza Armerina, ed ero vescovo, di aver proibito il funerale del capomafia di Gela e ricevetti una lettera di minaccia. Ritengo che occorre anche una legalità che vada di pari passo alla solidarietà». 

E all’indomani della sentenza della Corte di Strasburgo che condannava l’Italia per la detenzione inumana a cui sarebbe stato sottoposto il boss Bernardo Provenzano negli ultimi anni della sua vita, monsignor Michelangelo Pennisi ha espresso il suo pensiero. «Bisogna dire che anche chi ha sbagliato così come prevede la nostra Costituzione deve essere trattato con senso di umanità – dice il prelato  – ma questo vale anche per la Chiesa, anche la scomunica è sempre una pena medicinale che non serve per distruggere una persona. Poi non spetta a me valutare se nel caso specifico ci sia stata umanità o inumanità, a questo hanno pensato i magistrati». 

La conversione non riguarda solo i cristiani anche perché spesso dietro anche le manifestazioni religiose si possono insinuare persone ben lontane dal valore del Vangelo e vicini a vario titolo alle mafie. «Il discorso della conversione – sottolinea Salvatore Costantino – non riguarda solo la Chiesa ma l’intera società . Nell’azione quotidiana occorrono fatti e vorrei ricordare che anche la fede a volte può essere un bene rifugio e noi dobbiamo evitarlo. Non riusciamo a sconfiggere la mafia perché esiste una subcultura. Anche Gesù chiedeva un’inversione della prassi, lui diceva se non credete in me credete nei fatti, è stato un rivoluzionario. Tutto ciò porta a una considerazione: se si parla della banalità del male dobbiamo rispondere con un’ordinarietà del bene comune». 

E l’affermazione del bene comune passa attraverso il controllo del territorio come affermazione della sicurezza. «In questi due cicli formativi – continua Costantino – siamo partiti dalla considerazione che la mafia, la corruzione non sono fenomeni semplici e non esistono ricette semplici e immediate per vincere una battaglia che va avanti da decenni ma che sta registrando comunque una vittoria dello Stato. Per vincere la guerra ci vuole un quid pluris ma per far ciò occorre far percepire in modo trasversale questa esigenza di operare su più livelli».

Per combattere la mafia insomma serve educazione e cultura. «Le istituzioni devono aprirsi alla scuola – sottolinea padre Vitangelo Denora, direttore generale dell’istituto Gonzaga -, i giovani devono mettersi in gioco e affrontare le sfide anche attraverso le la formazione internazionale». Un percorso formativo portato avanti ad ampio raggio dal docente Angelo Cuva. «Siamo soddisfatti di questo percorso biennale – afferma – che ha affrontato tematiche importanti quali il contrasto alla corruzione e siamo pronti anche con l’aiuto di monsignore Corrado Lorefice a preparare nuovi contenuti dove gli interlocutori privilegiati rimangono i giovani».

Ambra Drago

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