«Tu non sai chi sono io», avrebbe detto l’imprenditore acese Santo Massimino. «Se non rispetto la parola data qualcuno mi romperà il culo», riferiva per tutta risposta Salvatore Palella, ex proprietario dell’Acireale Calcio, al suo direttore sportivo Ignazio Ruvolo. In mezzo, tutte le possibili declinazioni di «uomo di merda» rivolte da Vincenzo Ercolano – figlio del boss Pippo e nipote di Nitto Santapaola, imprenditore del settore dei trasporti – allo stesso Palella. È il clima in cui si sarebbe svolta, secondo i magistrati di Catania, una tentata estorsione da 15mila euro e un pizzo consumato da cinquemila. Al centro della vicenda, il logo della squadra di calcio acese. Del primo reato sono accusati in concorso Santo Massimino e Vincenzo Ercolano, mentre nel secondo caso a condurre l’operazione sarebbe stato solo Massimino. L’imprenditore acese, titolare della Nika Group e di altre imprese, si è occupato soprattutto di eolico ma anche di costruzione di centri commerciali come il Sicily outlet village e il Katanè. «Massone solo per pochi minuti», come ha raccontato lui stesso ai magistrati, ritenuto vicino al capo provinciale di Cosa nostra catanese Vincenzo Aiello – a cui ha consegnato 15mila euro perché, secondo la sua versione, «mi ha chiesto un prestito, sua moglie era malata e io sono un operatore di pace riconosciuto dall’Onu» – è stato condannato a dodici anni per concorso esterno in associazione mafiosa nel primo grado del processo Iblis.
Cu si cucca che picciriddi si susi che pantaloni cacati
La nuova vicenda al centro dell’indagine Caronte comincia a dicembre 2012 quando il ventenne Salvatore Palella pensa di rilevare la società Acireale Calcio 1946. Cosa che in effetti farà a febbraio dell’anno dopo, entrando in possesso del 99 per cento delle quote. Per questo a fine 2012 il giovane prende contatti con i soci della squadra, che ricorda essere: l’avvocato catanese Rosario Pennisi, «Galati di cui non ricordo il nome» (l’avvocato Carmelo Galati, sindaco di Sant’Agata Li Battiati specifica che non si tratta di lui, ndr) e Giuseppe Cocuzza, docente di Agraria all’università di Catania. È Pennisi, ricorda Palella, a spiegargli come il marchio però sia ancora di proprietà di Santo Massimino, ex patron della squadra, specificando che, per un tacito accordo, l’immagine poteva essere utilizzata fino alla fine del campionato. Ma le cose vanno diversamente. Quando a giugno 2013 Palella inizia a trattare alcune sponsorizzazioni, riceve la diffida legale di Massimino. Così chiede di fare da tramite per fissare un incontro con l’ex patron proprio a Pennisi, il legale che rappresenta Massimino nel processo Iblis dove l’imprenditore acese è accusato – e poi condannato – di aver favorito Cosa nostra catanese con le sue aziende. «In realtà io sono stato presidente della squadra, ma in quel periodo non lo ero già più – spiega l’avvocato a MeridioNews – Palella mi ha chiesto di chiedere a Massimino per il logo, io gli ho riportato la sua offerta e poi mi sono disinteressato quella questione».
(Nella foto in alto l’imprenditore Santo Massimino. In basso, uno scatto del momento della firma per la cessione dell’Acireale Calcio: a destra Salvatore Palella, a sinistra l’avvocato Rosario Pennisi; foto tratta dal forum calciolandiasicilia)
La prima richiesta per la cessione del logo è di 15mila euro. In contanti. Da quel momento in poi si susseguono almeno quattro appuntamenti e i toni delle conversazioni tra Massimino e Palella si fanno sempre più accesi. Ma solo per interposta persona. A essere chiamato a mediare è infatti Vincenzo Ercolano, invitato da Palella a uno dei primi incontri all’hotel Bellavista, per aiutarlo a trattare con Massimino un prezzo al ribasso. Ma quello che Palella non sa è il rapporto che lega Massimino ed Ercolano. In contatto per motivi di lavoro almeno dal 2008, il primo, più anziano, chiama con confidenza il secondo «Enzo». Mentre il rampollo di una delle più importanti famiglie mafiose catanesi non si discosta mai dal lei e parla del «signor Massimino» come del «collega» con cui non vuole «fare brutta figura». Concetto espresso più volte e spesso in modo più colorito.
Durante la trattativa estiva, è l’imprenditore acese a cercare con insistenza Ercolano affinché convinca Palella a pagare. Oppure perché faccia pressione sui genitori che, secondo Massimino, dovrebbero saldare al posto del figlio nonostante le difficoltà economiche della famiglia. «Lo fa perché è stato Palella a chiamare Ercolano come garante della trattativa», spiega la difesa di Massimino. In ogni caso, Ercolano esegue senza esitazioni: «Quel pezzo di merda di tuo figlio, quella tonnellata di merda di tuo figlio […] appena lo prendo lo ammazzo a schiaffi», riferisce a Giuseppe Palella, padre di Salvatore. Lo scambio di telefonate ed sms tra i protagonisti prosegue fitto, con Massimino che informa Ercolano di ogni passo della trattativa e lamenta di non aver ancora ricevuto i soldi da Palella. «Dico legalmente cosa può fare lei?», consiglia Ercolano. «Niente, lo denuncerei volentieri se avessi gli elementi…», risponde Massimino. Riferendosi al fatto che tra lui e Palella non c’era niente di scritto, se non la parola e l’interesse manifestato ad acquistare il logo della squadra.
Tra appuntamenti rimandati e non rispettati, Massimino intanto alza il prezzo: da 15mila a 20mila euro, con l’obbligo per Palella di consegnarne subito cinquemila a titolo di affitto del marchio per il campionato seguente. L’ultimo appuntamento è fissato in un albergo abbandonato, l’hotel Orizzonte: una scelta che fa pensare a Palella, come racconta ai magistrati, che forse era il caso di procedere almeno al pagamento dei cinquemila euro. Inviati tramite bonifico dal conto del direttore sportivo Ignazio Ruvolo. È questa, per i giudici, l’estorsione consumata. Che non coinvolge Ercolano, assente all’incontro, nonostante la richiesta esplicita di partecipare da parte di Massimino. «Buongiorno, purtroppo mi si è rotto un tubo dell’acqua a casa, sto aspettando l’idraulico e non posso venire, mi tenga aggiornato». Il resto dei soldi non arriverà mai e Palella decide di chiudere la questione cedendo le quote dell’Acireale Calcio «senza ricevere il pagamento del prezzo». Una vicenda riassunta da Ercolano con un antico detto siciliano: «Cu si cucca che picciriddi si susi che pantaloni cacati».
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