Torna protagonista delle cronache e delle investigazioni, malgrado stia scontando un ergastolo per omicidio, oltre a vantare nel curriculum criminale una condanna irrevocabile per associazione mafiosa e narcotraffico. Si tratta di Ignazio Pullarà, storico boss della famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù, a cui questa mattina sono stati confiscati tre immobili che ospitavano importanti attività commerciali per un valore complessivo di circa 1,6 milioni di euro. Sigilli, quindi, al Lucky bar, a un supermercato Carrefour e al Centro Shopping De Santis, tutti in via del Levriere. Immobili ritenuti tutti riconducibili all’anziano boss, affittati nel tempo e gestiti da alcuni prestanome di fiducia. Troppe, secondo gli investigatori, le incompatibilità fra entrate lecite e investimenti. Pare infatti che il tenore di vita condotto dai suoi familiari (e non) fosse particolarmente alto: terreni, conti, immobili, non si sarebbero fatti mancare niente. Esborsi notevoli, malgrado nessuno della famiglia abbia mai dichiarato redditi o altre entrate significative, fatta eccezione per la vendita di un terreno nell’80 a poco più di cinquemila euro.
A dare una mano ci avrebbero pensato, secondo quanto emerso, i fratelli Macaluso, Antonino e Salvatore, puntualmente beccati dagli investigatori – attraverso pedinamenti e captazioni – a frequentare con una certa assiduità Gaetano Di Marco, per gli inquirenti uomo d’onore di Santa Maria di Gesù, e Santi Pullarà, figlio del boss ergastolano, anche lui con una condanna sulle spalle per associazione mafiosa. Ricevuti i canoni di locazione dai locatari degli immobili («da questi ci devi andare con moderazione»), Antonino Macaluso procedeva sistematicamente, per tramite di Di Marco, a farne arrivare una parte cospicua al figlio del boss, un «impegno che Macaluso aveva ereditato dal padre». È lui, Ignazio Pullarà, l’indiscusso regista di questo ingente giro di soldi, malgrado la sua condizione di «sepolto vivo». In base a quanto scoperto dalle indagini, veniva ragguagliato costantemente dal figlio sull’amministrazione di quel patrimonio. Le conversazioni intercettate, del resto, dimostrerebbero che il figlio, oltre ad amministrare il patrimonio immobiliare intestato ai Macaluso nell’interesse e per conto del padre, non mancava di prendere contatti con i boss di riferimento della zona per avere il lasciapassare per le sue autonome idee imprenditoriali. Seguendo anche lui, come di regola, la rigida prassi imposta da Cosa nostra: chiedendo, quindi, l’autorizzazione per dare corso alle sue iniziative economiche.
Un’anima imprenditoriale, quella di Pullarà junior, che però ha in più occasioni dovuto fare i conti anche con il rischio della concorrenza e la possibilità che nella stessa via aprissero attività che avrebbero potuto creargli problemi. Una preoccupazione accantonata solo nel 2014, quando un incendio di origine naturale ha danneggiato parte degli immobili riconducibili alla sua famiglia: «Tutte cose bruciate, sono nella merda, e ora io come campo?», si domandava, intercettato. Ma era convinto di riuscire a persuadere, con le buone o meno, uno degli affittuari a occuparsi di tasca propria della ristrutturazione: «Se lei è convinto che là rimane così…il danno resta a me, lei forse non ha capito bene il problema – diceva -, dove se ne vuole andare se ne va, basta che mi risolve il problema». Se avesse opposto resistenza, pensava anche di azzardare una proposta alternativa, sempre nell’ottica di ricavarci qualcosa: vendere la proprietà all’affittuario. «Mi dai due milioni di euro e te lo prendi così com’è». Una somma spropositata, rispetto alle cifre di mercato.
In base agli accertamenti patrimoniali compiuti, è emerso inoltre che la stessa edificazione dei fabbricati – che ha evidentemente determinato una radicale trasformazione del terreno con investimenti che inoltre ne hanno anche significativamente mutato il valore – è frutto di un intervento abusivo, dunque illecito. Intervento che, una volta acquistato il terreno e realizzato i magazzini, avrebbe consentito alla famiglia del boss ergastolano la principale fonte del loro sostentamento. Un’ipotesi avvalorata da quel profilo spiccatamente criminale che ritorna, ancora oggi. Tra i boss più sanguinari di Cosa nostra, Pullarà è uno dei protagonisti delle complesse e sanguinose vicende della cosiddetta seconda guerra di mafia, negli anni ’80. Ma già nel ’76 ha dovuto fare i conti con una condanna emessa dal tribunale di Milano per associazione a delinquere finalizzata ai sequestri di persona a scopo di estorsione. Non mancano le rapine e il traffico internazionale di stupefacenti, fino al 1982, quando si perdono le sue tracce e diventa a tutti gli effetti un latitante. Nessuno sa più niente di lui per otto anni, fino al 10 ottobre 1990, quando viene arrestato.
Un mafioso di tutto rispetto, che ha fatto di Cosa nostra l’aspetto esistenziale più permeante, mentre era intento nella sua ascesa e formazione criminale. Ha lasciato il segno, in qualche modo Pullarà, lo rivela non solo la solida rete di protezione che non ha permesso di scovarlo per anni, ma anche il continuo mantenimento che l’organizzazione criminale gli assicura ancora oggi. È un vincolo, insomma, che non sembra essersi mai neppure sbiadito nel tempo. Così come la sua autorevolezza, che sembra avere effetti ancora oggi, nonostante gli anni e malgrado le sbarre che lo rinchiudono.
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