Mafia, assolti Mario Mori e Mauro Obinu

Non ci fu favoreggiamento alla mafia. Le accuse formulate a carico del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu – entrambi militari dell’Arma dei Carabinieri – non hanno convinto i giudici della quarta sezione del Tribunale di Palermo. I due militari sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato”.

Erano accusati di non aver catturato, nell’ottobre del 1995, il boss corleonese, Bernardo Provenzano.

E’ probabile, anzi è certo che l’accusa – rappresentata dal procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, e dai pubblici ministeri Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia – presenterà ricorso.

L’accusa era quella di non avere catturato, ad ottobre del ’95, il boss Bernardo Provenzano consentendogli, così, di rimanere latitante. Grande folla di cronisti e operatori tv in tribunale. Mori e Obinnu erano erano presenti al momento della lettura del dispositivo della sentenza. In aula, per l’accusa, l’aggiunto Vittorio Teresi e i pm Antonino Di Matteo e Roberto Tartaglia.

Soddisfazione è stata espressa da uno degli avvocati difensori degli imputati, Basilio Milio, figlio del noto avvocato Pietro Milio, deceduto qualche anno fa.

Sono, adesso, tutte da decifrare le possibili refluenze che questa sentenza avrà sul processo per la cosiddetta trattativa – o trattative – tra Stato e mafia. Bisognerà capire che ruolo giocheranno su questo processo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio del più noto Vito Ciancimino, esponente di spicco della vera mafia siciliana.

E’ inutile nasconderlo: questa sentenza non rappresenta il migliore viatico per il proseguimento del processo sulla trattativa – o sulle trattative – tra Stato e mafia.

Un fatto è certo: tutto quello che è avvenuto dalla strage di Capaci in poi è ancora avvolto da troppe nebbie. Poche le verità e molti, forse troppi, i punti ancora da chiarire.

In questi anni abbiamo assistito a depistaggi, a polemiche infinite su arresti eccellenti (incredibile quello che è avvenuto con l’arresto di Totò Riina, con le autorità che non hanno effettuato il sopralluogo nel ‘covo’ del boss dei boss subito dopo la cattura), a ‘improvvisi’ ritorni di memoria da parte di funzionari dello Stato, di ex Ministri e, in generale, di esponenti politici.

Da un anno a questa parte, o giù di lì, da quando ha preso corpo il processo per la trattativa – o per le trattative – tra Stato e mafia lo scenario è diventato ancora più cupo. Le cronache ci hanno consegnato un ex Ministro della Repubblica, Nicola Mancino, che telefona al Quirinale per lanciare strani ‘avvertimenti’. Poi abbiamo assistito alle polemiche su queste telefonate e, addirittura, a un ricorso presso la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi su fatti non esattamente di ‘dottrina’…

Oggi è arrivata questa sentenza. Che, come ha detto giustamente il pm Di Matteo, va rispettata.

Rispettiamola. Ma, di rispetto in rispetto, non ci dimentichiamo che, in Italia, dall’ “Intrigo fondamentale” ad oggi (la definizione “Intrigo fondamentale”, coniata dal giornalista Pietro Zullino nel bellissimo saggio “Guida ai misteri e ai piaceri di Palermo” fa riferimento all’assassinio del bandito Salvatore Giuliano avvenuto il 5 luglio del 1950), mettendoci anche la strage di Portella della Ginestra, avvenuta l’1 maggio del 1947, di verità, l’Italia, almeno su questi crimini, ne ha conosciute ben poche.

L’unica cosa che ci sentiamo di affermare è che, in questo clima da “Intrigo fondamentale”, lo Stato ‘officiale’ italiano farebbe bene, dopodomani, a tenersi alla larga dalla commemorazione di Paolo Borsellino.

 

Redazione

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