Mafia, a Barcellona antistato imposto con orrore Omicidi, torture e sevizie per chiunque sgarrava

Per 19 anni a Barcellona ha regnato l’antistato. Così ha definito Cosa nostra barcellonese il comandante dei Ros, Giuseppe Governale. «Gotha 6 – ha sottolineato il generale – è un’indagine delicatissima che ha svelato un mondo di crudeltà e violenza esercitato in un periodo, dal 1993 al 2012, in cui le organizzazioni mafiose sceglievano la strategia dell’inabissamento». Ma non nel caso della famiglia mafiosa barcellonese che è stata paragonata, per forza e struttura gerarchica, alle cosche palermitane e di Caltanissetta. A Barcellona vigeva «una forma di antistato a tutto tondo. Esercitavano la violenza e la loro forma di giustizia con sistematiche procedure davvero crudeli. Bastava violare determinati equilibri, commettere reati senza autorizzazioni, rivolgersi alla persona sbagliata, uscire fuori dai loro schemi per essere uccisi». Un rituale «senza precisione, senza misura, non come un bisturi ma tagliando le ossa, pure le mani delle persone se avevano commesso un furto».

È il caso, ad esempio, dell’omicidio del ventunenne Antonino Sboto, ucciso il 3 maggio 1999. Aveva commesso dei furti senza avere l’autorizzazione dei vertici mafiosi barcellonesi. E soprattutto aveva rubato nel negozio di una parente di un appartenente al clan del Logano. A raccontare i fatti è il pentito ed ex capomafia Carmelo D’Amico, che ha confessato di essere uno degli esecutori materiali del delitto. Il mandante sarebbe Salvatore Micale, che ottiene il via libera a uccidere Sboto da Sam Di Salvo. Micale tende una trappola al 21enne invitandolo a commettere un furto insieme, quindi raggiunge, con la sua auto, il torrente Idria dove ad aspettarli ci sono D’Amico, il fratello Francesco, Aurelio Micale e Antonino Calderone. Sboto viene subito immobilizzato e caricato nel cofano di una jeep. Un viaggio breve, giusto il tempo di risalire il torrente Buzzurro, dove viene giustiziato con un colpo alla nuca. Ma non era sufficiente. «Decidemmo di tagliare le mani di quel ragazzo per dare un esempio a tutti. A Barcellona non si doveva robbare», rivela D’Amico e proprio lui con un machete prova a tagliargli le mani, senza però riuscirci. A completare il lavoro fu Calderone, che di mestiere faceva il macellaio.

A decidere la vita e la morte di chi sgarrava, come sottolineato dal procuratore capo Guido Lo Forte, era il capo mafia Giuseppe Gullotti, «l’avvocaticchio», condannato a trent’anni perché ritenuto il mandante dell’omicidio del giornalista barcellonese Giuseppe Alfano. Accanto al boss nell’ordinanza compaiono alcuni suoi fedelissimi luogotenenti, come Salvatore Sam Di Salvo e Giovanni Rao, entrambi arrestati nel 2011 e condannati a pesanti pene detentive. E poi ancora un altro esponente di primissimo piano è Tindaro Calabrese, arrestato del 2008. Ma è anche grazie alle dichiarazioni di sette collaboratori di giustizia che gli investigatori hanno individuato gli autori e ricostruito movente e modalità esecutive di 15 omicidi. In uno dei più crudeli è lo stesso boss Gullotti a torturare e seviziare la vittima Domenico Pelleriti, di Basicò, colpevole di aver rubato un camion carico di sanitari a una ditta che pagava il pizzo. A differenza di altri delitti, dove Gullotti dava solo disposizioni sul da farsi, a questo partecipa insieme a Sam di Salvo. I due ordinano di prelevare Pelleriti e di portarlo in contrada Salicà, a Terme Vigliatore, nel vivaio di Nunziato Siracusa. Qui lo aspettano i suoi aguzzini che per una trentina di minuti lo interrogano, immobilizzato e legato a una sedia. Viene picchiato con schiaffi e pugni fino a lasciargli il volto tumefatto. Nel frattempo fuori dal rudere, viene scavata una fossa. Prima di farlo uccidere, Gullotti gli concede un’ultima sigaretta, quindi lo affida ai killer, che lo calano nella buca, gli incappucciano il capo e gli sparano due colpi in testa, per poi ricoprirlo con calce, terra e fogliame. Il corpo, nonostante gli scavi, non è mai stato ritrovato.

Un’altro omicidio caratterizzato da una violenza senza freni è quello di Mario Milici, figlioccio del boss Carmelo Milone, punito perché cercava di farsi strada ai vertici della famiglia barcellonese. Ad ucciderlo è proprio Carmelo D’Amico che si è autoaccusato del delitto, avvenuto il 19 agosto del 1998 a Barcellona, in Stretto Garrisi. La decisione di farlo fuori sarebbe stata presa da Di Salvo e Rao durante una riunione a casa di Francesco Aliberti alla quale era presente lo stesso D’Amico. Secondo i vertici mafiosi Milici non avrebbe versato le somme provenienti dal racket delle estorsioni e dal gioco d’azzardo. La sera dell’omicidio i due killer si appostano nella stalla di Milici e gli sparano tre colpi di fucile. Ma nonostante venga ferito alla testa, Milici prova a scappare, scavalcando un muro di cinta. Ma viene raggiunto e immobilizzato, quindi D’Amico lo colpisce più volte al collo con la canna del fucile. E alla fine, secondo gli inquirenti, è Carmelo Giambò a sparargli un colpo di calibro 38 in testa.

Nei 19 anni di storia della mafia barcellonese passati in rassegna dall’ordinanza si ricostruiscono anche gli omicidi di Fortunato Ficarra, ucciso nel 1998 a Santa Lucia del Mela per aver importunato una donna. E di Felice Iannello per aver spacciato droga a Barcellona anche a minori senza l’autorizzazione della famiglia mafiosa. Tra i delitti eccellenti viene svelato quello del boss Mimmo Tramontano, ucciso nel 2001 perché voleva eliminare Carmelo Bisognano, al vertice del gruppo; mentre Nunziato Mazzù sarebbe stato ammazzato perché stava pensando di collaborare con la giustizia. E poi il triplice omicidio del 4 giugno 1993 nei pressi della vecchia stazione di Barcellona, in cui vengono fatti fuori Sergio Raimondi, Giuseppe Martino e Giuseppe Geraci, perché avevano commesso furti senza averne il permesso. Un’operazione che rappresenta il sesto capitolo di un percorso che la procura peloritana con la Dda e le forze dell’ordine portano avanti ormai da anni. E che, secondo quanto fatto trapelare dagli investigatori, potrebbe avere a breve una nuova puntata.

Simona Arena

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