«La guerra forse non è ancora vinta, ma una battaglia importante sì». Così il procuratore capo di Catania Giovanni Salvi commenta l’operazione Caronte che ha portato all’arresto di 23 persone tra cui alcuni nomi di spicco come Vincenzo Ercolano, chiacchierato ma al momento incensurato figlio del boss Giuseppe – cognato di Nitto Santapaola – e cugino di Vincenzo Santapaola, ritenuti i due capi di Cosa nostra catanese. «Quest’indagine dimostra la spiccata vocazione imprenditoriale dell’associazione mafiosa etnea che la differenzia per effervescenza rispetto alle altre realtà dell’isola», commenta Mario Parente, generale del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei Carabinieri. Un fiuto per gli affari non indifferente, tanto da far sequestrare alle forze dell’ordine beni per il valore di oltre 50 milioni di euro tra Catania, Palermo, Messina, Napoli, Mantova e Torino.
A ripercorrere le indagini è il colonnello Lucio Arcidiacono, già testimone nel processo Iblis sulle collusioni tra politica, mafia e imprenditoria, di cui l’operazione Caronte appare la naturale prosecuzione. Ancora una volta le indagini partono da dal rappresentante provinciale della mafia etnea Vincenzo Aiello e dal fratello Alfio. Ma stavolta a loro si aggiunge nell’interesse degli investigatori il nome di Vincenzo Ercolano. «Da loro si è arrivati a Francesco Caruso e Giuseppe Scuto, imprenditori del settore dei trasporti ritenuti soci occulti degli Aiello e di Ercolano». I due si occupavano soprattutto di consorzi e brokeraggio assicurativo. Nel mondo dei trasporti, dalla fine degli anni ’90 il nome di Caruso legato a quello della famiglia Riela, tra le principali aziende siciliane per fatturato, prima che le indagini antimafia facessero luce sul loro sistema e condannassero i fratello Filippo e Rosario, dopo il già ergastolano Francesco. Solo dopo, nel 2004, Caruso transita sotto l’orbita della famiglia Santapaola-Ercolano.
«Caruso e Scuto si interessavano anche di trasporto via mare con la Società autostrade del mare che per tre mesi, tra il 2005 e il 2006, ha curato l’attraversamento dalla Sicilia alla Calabria», continua Arcidiacono. Tramite un contratto d’affitto da 120mila euro al mese per tre imbarcazioni con la Amedeus spa di Amedeo Matacena, imprenditore calabrese condannato per concorso esterno alla mafia e oggi latitante. Un business redditizio ma terminato presto per disguidi economici, indagini della procura e il ritiro delle concessioni alla Amadeus.
«Tramite l’interfaccia politica Caruso e Scuto ottenevano diversi incentivi economici, come gli ecobonus – aggiunge la pm Agata Santonocito – In una intercettazione negli uffici della Regione siciliana, Caruso spende il nome di Raffaele Lombardo». L’ex governatore regionale ritenuto l’anello politico della catena insieme all’ex deputato regionale Giovanni Cristaudo. Entrambi non indagati ma già condannati per concorso esterno in associazione mafiosa: Lombardo a sei anni e otto mesi in primo grado e Cristaudo a cinque anni in appello. «In ogni caso anche questa indagine conferma la mancanza di anticorpi della politica», commenta Santonocito.
E il rapporto proprio con la politica sarebbe stato talmente stretto da spingere Caruso e Scuto a fondare un proprio partito: il Partito nazionale degli autotrasportatori. Una sigla, Pna, non troppo conosciuta, ma messa al servizio della lista Autonomie di Lombardo in occasione delle elezioni europee del 2009, anche «con la pubblicità nazionale sui camion». Ma la politica era solo un vertice di questo illegale triangolo.
A un altro capo stava infatti la mafia, secondo gli investigatori. «Il 31 luglio del 2006 Caruso subisce un attentato mentre è in moto con Scuto – racconta il colonnello dei Ros – Viene raggiunto da due colpi di pistola calibro 38 al torace, ma rimane solo ferito e guarisce in 15 giorni. Nelle conversazioni con Scuto, i due fanno ipotesi su chi possa essere stato ad organizzare l’attentato e Caruso viene poi rassicurato dagli Aiello sul fatto che non si sarebbe ripetuto».
Ma gli appetiti imprenditoriali di Vincenzo Ercolano e dei fratelli Aiello non si sarebbero limitati al tramite di Caruso e Scuto. Ercolano infatti, secondo i magistrati, avrebbe avuto interessi anche nella Savise Express, società che fa base a Palermo e con una sede operativa anche a Catania, che avrebbe intessuto alleanze commerciali e non solo anche con altre realtà imprenditoriali riconducibili a esponenti di Cosa nostra palermitana e agrigentina. Come Giovanni Pastoia, figlio di Francesco, ex braccio destro del boss Bernardo Provenzano morto suicida in carcere a tre giorni dall’arresto e capo della famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno, nel Palermitano.
A interessare Vincenzo e Alfio Aiello, invece, era il settore del commercio della carne nella grande distribuzione. I due si sarebbero infiltrati nelle aziende di Carmelo Motta che gestivano le macellerie dei discount Fortè e nelle società del calabrese Giovanni Malavenda «protetto da Cosa nostra catanese che ne curava gli interessi in Sicilia», spiega la procura, per i punti vendita Eurospin in Sicilia. Senza tralasciare l’edilizia, in cui operano Francesco e Michele Guardo, ritenuti vicini agli Ercolano.
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