I giudici della prima sezione penale della Corte dappello hanno condannato a dodici anni Sebastiano Scuto, conosciuto come il re dei supermercati. Estesa anche la confisca dei beni dell’imprenditore. Condannato già in primo grado nel 2010 a quattro anni e otto mesi per associazione mafiosa, la corte ha accolto quasi totalmente la richiesta del sostituto procuratore generale Gaetano Siscaro (che aveva chiesto la pena di 12 anni e sei mesi). Assolto, invece, l’altro imputato del procedimento, l’ex maresciallo dei Carabinieri Orazio Castro.
Quella di Scuto è una delle storie che fa parte del cosiddetto secondo Caso Catania. La sua impresa – nata a San Giovanni La Punta e concessionaria Despar per la Sicilia orientale – nei primi anni del 2000 è valutata attorno ai mille miliardi di lire, con 1.600 dipendenti e un indotto che ne impiega quattromila. Un impero economico che – secondo l’impianto accusatorio – sarebbe ancorato al clan Laudani, in particolare grazie all’intermediazione di Carmelo Rizzo. Un nome che compare anche in un’altra puntata del caso Catania e che riguarda il magistrato Giuseppe Gennaro, uno dei membri del pool che aveva in carico l’indagine su Scuto.
Eppure il processo contro il re dei supermercati ha rischiato di non vedere mai un inizio. Nel 2001 la Procura etnea chiede l’archiviazione ricevendo una risposta negativa dal gip. L’inchiesta viene quindi avocata dalla procura generale che rileva «inerzia e mala gestio» nel lavoro dei magistrati catanesi. La figura dell’imprenditore è causa di profonde divisioni all’interno del palazzo di giustizia di Catania, con l’ex procuratore capo Mario Busacca che in un’intervista a La Sicilia sminuisce la consistenza degli indizi a carico di Scuto, mentre il magistrato Nicolò Marino in un’audizione all’Antimafia denuncia ritardi nelle indagini e pressioni subite dagli stessi colleghi. Da parte sua, Scuto ha sempre sostenuto di essere una vittima delle estorsioni del clan.
Oltre al nodo dei presunti interessi di Cosa nostra, è complicato riuscire a districare il complesso reticolo di società create – secondo l’accusa – per confondere le acque. Quella che è stata ribattezzata la questione lussemburghese per via di trasferimenti di fondi nel piccolo Stato del Benelux poco prima che il cerchio delle indagini si chiudesse attorno all’imprenditore. Per i legali di Scuto, si è trattato di normali operazioni del tutto trasparenti. Anche l’espansione verso la Sicilia orientale è causa di diverse interpretazioni tra accusa e difesa. L’ipotesi del pg – ossia che si sarebbe trattato di una maniera per rinsaldare i rapporti con le famiglie mafiose afferenti a Matteo Messina Denaro e Piddu Madonia – è stata respinta in primo grado. Ma oggi i giudici hanno accettato la ricostruzione. Nella vicenda non mancano anche le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, Eugenio Sturiale e Maria Biondi (quest’ultima parente della moglie di Scuto), che raccontano di un tentativo di corruzione nei confronti dello stesso procuratore Siscaro e di una richiesta di intercessione al boss Aldo Ercolano.
Dopo larresto dell’imprenditore, l’Aligrup per nove anni rimane in amministrazione controllata. Solo con la sentenza di primo grado l85 per cento delle quote viene restituito alla famiglia, nella persona del figlio di Scuto, Salvatore. Il 15 per cento, invece, viene confiscato. Adesso i giudici hanno disposto il sequestro di tutti i beni, anche quelli all’estero e la quota dell’azienda restituita nel 2010. Negli anni della gestione dello Stato, priva dei canali preferenziali di cui secondo l’accusa avrebbe goduto, i conti dell’azienda si fanno sempre più rossi, fino a raggiungere un debito da 150 milioni di euro. Scongiurato il fallimento, resta aperta la questione occupazionale per circa 1200 lavoratori. «Quello che è il processo Scuto con la faccenda Aligrup sono situazioni totalmente diverse – commenta a caldo Giuseppe Pistorio, sindacalista Rsu Ugl – Anche se mi dispiace personalmente, perché è una persona anziana, le vicende sono totalmente scollegate. Non sappiamo cosa accadrà all’Aligrup a seguito della condanna».
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