«In questo caso non è possibile parlare di obiezione di coscienza perché non c’è stata nessuna interruzione di gravidanza». Non ha dubbi il direttore generale dell’ospedale Cannizzaro Angelo Pellicanò su uno degli aspetti più discussi del caso della morte di Valentina e dei due gemelli che portava in grembo da cinque mesi tramite procreazione assistita. La donna, 32 anni, è deceduta domenica dopo un ricovero iniziato il 29 settembre. Secondo la famiglia e l’avvocato Salvatore Catania Milluzzo, un medico avrebbe impedito l’aborto del secondo feto – il primo era nato morto -, rifiutandosi di estrarlo fino a quando sarebbe rimasto vivo. «Non c’è stata nessuna interruzione di gravidanza e quindi non si può parlare di obiezione di coscienza – spiega il primario di Ginecologia Paolo Scollo -. La signora era alla 19esima settimana mentre il feto ha possibilità di vita soltanto a partire dalla 22esima». Dalla procura di Catania, nel frattempo, fanno sapere che – come atto dovuto dopo la denuncia dei familiari – sono indagati 12 medici del reparto di Ostetricia e ginecologia.
Il primario, durante una conferenza stampa convocata nella sala riunioni della direzione generale, spiega nel dettaglio come sarebbero andati i fatti, poi denunciati dalla famiglia e finiti al centro di un’inchiesta della magistratura. «Il primo aborto è stato spontaneo ed è avvenuto sabato alle 23.30. La paziente successivamente è stata sottoposta all’esame della procalcitonina ma la situazione è peggiorata a causa di una infezione». Il secondo «parto abortivo», come lo definisce tecnicamente Scollo, sarebbe stato indotto, e sarebbe avvenuto intorno all’1.40 del mattino di domenica: «Abbiamo usato l’ossitocina, non c’era possibilità di fare un’incisione chirurgica dell’utero perché il quadro clinico non lo consentiva ed era insorta una grave patologia emorragica. Quindi mi chiedo che cosa c’è di obiezione di coscienza? Da cosa nasce l’enfatizzazione del medico obiettore di coscienza?», domanda Scollo.
A confermare che l’obiezione di coscienza sia da escludere nella ricostruzione di quanto avvenuto in ospedale è anche una esperta ginecologa contattata da MeridioNews, che preferisce rimanere anonima. «Obiettore o non obiettore non c’entra assolutamente nulla – sostiene – Una gravidanza gemellare è una gravidanza a rischio di per sé, e un feto di 19 settimane non può essere estratto senza un’adeguata procedura. Altrimenti ammazzi di sicuro la madre, prima che il bambino». L’intervento del medico «è obbligato nel momento in cui è in pericolo la vita della donna», ma è vincolato ai tempi necessari all’azione dei farmaci. Solo in casi eccezionali «si pratica l’isterotomia, cioè l’incisione dell’utero. Ma devono esserci le condizioni cliniche perché la paziente possa sopportare l’intervento. Spesso avviene, inoltre, che si sia costretti a rimuovere l’utero per intero. Una decisione che compete non al singolo medico ma all’intera équipe».
La giovane Valentina muore il giorno successivo agli aborti, dopo essere stata trasferita nel reparto di Rianimazione. «Era in condizioni gravi ed è deceduta, secondo un nostro sospetto, a causa di una sepsi con crisi emorrargica dovuta a un’infezione», interviene Pellicanò. Per chiarire meglio le cause del decesso bisognerà aspettare l’autopsia. L’esame era stato chiesto in un primo momento dall’ospedale Cannizzaro ma i familiari si erano rifiutati. Subito dopo scatta la denuncia e la magistratura blocca il funerale facendo ritornare la salma della donna al Cannizzarro. Intanto una task force ministeriale è attesa in serata per compiere ulteriori accertamenti. Dai vertici del nosocomio nessuna conferma sulla frase «Fino a che è vivo io non intervengo» che il medico avrebbe pronunciato in sala parto. Un testo finito in diversi giornali, contenuto nella denuncia della famiglia, ma che non trova conferma dal Cannizzaro. «Il nostro collega non ha mai pronunciato quella frase», conclude il direttore generale.
«Le condizioni della donna, lo dico per esperienza, possono essere peggiorate per tanti motivi. Indipendenti dall’aborto che stava avvenendo – continua l’esperta contattata da questa redazione – L’autopsia saprà dire quali sono le cause del decesso. Non conosco la situazione nello specifico, ma questa signora è rimasta ricoverata per giorni. Cosa è stato fatto durante il ricovero? A quali esami è stata sottoposta? Si è fatto tutto il possibile per capire i motivi di quella febbre? Se sì, si è trattato di una tragica fatalità. Le complicanze esistono, e non sempre è colpa dei medici, anche se è facile additarli. Quello che è certo è che a 19 settimane i feti non avrebbero avuto alcuna possibilità di sopravvivenza. L’obiezione di coscienza non c’entra nulla». E se il medico avesse detto quella frase? «Qual era la domanda che gli è stata posta? Questo lo sappiamo? Non mi pare. Quante volte ho sentito i parenti dire “Ma perché non levate il bambino?”. In certi momenti è comprensibile che le famiglie facciano domande del genere, ma un medico deve intervenire seguendo le regole del suo mestiere, fatte per il bene dei pazienti. Questo spesso non viene capito, né raccontato».
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