Quando quasi tutti sono andati via e anche le 17 bare con i corpi che il mare ha ridato indietro vengono sollevate ad una ad una per essere trasferite al cimitero di Acquicella, una donna eritrea col capo avvolto da un foulard azzurro rimane lì, ferma. Lo sguardo basso, la mente altrove. La testa appoggiata a uno degli archi del cortile Platamone, dove da poco si è concluso il rito interreligioso che ha dato l’ultimo saluto alle salme. «E’ ora di andare», le sussurra, accompagnando le parole con un gesto della mano, Salvatore Adamo, responsabile della casa famiglia di Giarre a cui sono stati affidati i suoi due nipotini. Per alcuni attimi la sua voce sembra non fare breccia nei pensieri della donna che alla fine lo segue in silenzio. Lasciando per l’ultima volta la bara che custodisce il corpo di sua cugina. Erano tutti insieme, le due donne e i bambini, lunedì 12 maggio quando il peschereccio su cui viaggiavano, partito dalla Libia e diretto in Sicilia, ha cominciato a imbarcare acqua a causa di un guasto causato, secondo la ricostruzione della Procura di Catania titolare delle indagini, dagli stessi scafisti. In quei lunghi minuti di panico, la mamma dei bambini è finita in acqua, i piccoli e la zia si sono salvati.
Sul barcone, secondo le testimonianze dei superstiti, in totale erano più di 300. Se ne sono salvati 206. Il mare ha restituito solo 17 cadaveri – due bambine di pochi mesi, 12 donne e tre uomini nati in Siria, Nigeria ed Eritrea – quasi tutti non identificati, che stamattina hanno ricevuto l’ultimo saluto dalle comunità di immigrati che vivino a Catania, dai ragazzi africani ospiti di una delle comunità Sprar della città, dai rappresentanti del Cara di Mineo, dalle autorità religiose tra cui l’arcivescovo Salvatore Gristina, il presidente delle comunità islamiche siciliane Kheit Abdelhafid, e quelle civili a partire dal sindaco Enzo Bianco, il procuratore capo Giovanni Salvi e il rettore dell’Università Giacomo Pignataro. Sulle bare di legno scuro nessun nome. Solo un foglietto bianco e poche parole scritte con un pennarello: «Cadavere non identificato», un numero e il sesso. Lamam ha 18 anni e vive nella comunità Sprar di via Stazzone. Lui e i suoi amici del Gambia si mettono in fila per lasciare un fiore bianco sulle bare. «Sono molto triste perché anche se non venivano dal mio Paese, erano tutti figli dell’Africa», spiega.
«Si respira una commozione vera e intensa – commenta Bianco – Siamo figli di un’antica civiltà, se ci voltassimo dall’altra parte davanti a questa situazione, faremmo schifo a noi stessi. Invece abbiamo il dovere di far sentire una carezza anche in una condizione disperata. E’ un segno di civiltà. Noi continueremo a fare la nostra parte, ma l’Europa deve fare fino in fondo la sua parte a cominciare dagli interventi nei Paesi da cui queste persone provengono. L’Europa scelga se seppellire insieme a questi corpi anche la coscienza di uomini civilizzati». Critica la Rete antirazzista catanese che parla di retorica e rimprovera al Comune di «aver aspettato due settimane per seppellire le salme nel cimitero cittadino. Le 17 bare – aggiungono – erano tutte senza identità, nonostante siano state riconosciute tre persone decedute. Non riusciamo a capire l’urgenza di trasferire in Sardegna e Toscana, in meno di 24 ore, la maggioranza dei superstiti al naufragio, vanificando così non solo le identificazioni, ma l’accertamento delle responsabilità del naufragio. Le versioni sono alquanto discordanti sui tempi d’affondamento del barcone, sui tempi dei soccorsi e sulla quantità delle vittime. Da mesi l’operazione Mare Nostrum si è alquanto ritirata dal pattugliamento nei pressi delle acque territoriali libiche».
Prima dei riti di religione cattolica, copta e musulmana, al microfono si alternano le autorità religiose. Ma le parole più dure arrivano da un prete, il direttore della Caritas diocesana Piero Galvano. «Quando la smetteremo di sfruttare gli stranieri per altre finalità? Noi europei stiamo facendo i soldi con l’immigrazione. E’ una verità che va detta davanti a questi fratelli morti».
Ruta Goitam, 25enne eritrea, ascolta in un angolo. E’ arrivata due giorni fa da Londra, dove vive da quattro anni. Anche lei aveva un cugino su quel maledetto peschereccio. Ma è uno dei corpi rimasti in fondo al Canale di Sicilia. «So che era sul barcone naufragato il 12 maggio, perché c’erano altri miei parenti che si sono salvati e mi hanno confermato che c’era anche lui». Ruta ha presentato una denuncia alla squadra mobile di Catania. «Le ricerche non si sono fermate», le promette una funzionaria della Prefettura. Ruta accenna un sorriso che rivela la speranza di avere anche lei, un giorno, un luogo che dia degna sepoltura a chi non c’è più e conforto a chi su questa terra ne custodirà il ricordo.
[Foto di Manuela Di Raimondo]
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