Si può chiedere a una persona di dimostrare la propria omosessualità per ottenere asilo in un Paese straniero? Secondo la questura di Palermo, e le autorità italiane, sì. Per questo «in prima istanza tutte le richieste presentate dai migranti vengono rigettate», racconta Mirko Pace, presidente del circolo Arcigay palermitano. Il sostegno a persone lgbt provenienti dall’Africa subsahariana e dal Medio oriente sta diventando sempre più una delle esigenze centrali per l’associazione. «Spesso ci troviamo a fare domande assurde e stupide per persone che hanno fatto dei viaggi incredibili», racconta. Per evitare eventuali inganni, la richiesta da parte delle autorità italiane è quella di cercare di dimostrare di avere avuto delle relazioni omosessuali in patria e di essere stati discriminati per questo motivo. I volontari dell’associazione, dunque, sono «costretti a chiedere se hanno delle lettere o delle foto che lo provino», spiega Pace. «Difficile che ne abbiano: si tratta di prove di quello che in molti Paesi è considerato un reato».
Qualche richiesta, conferma Mirko Pace, gli uffici di Arcigay sono riusciti a portarla a compimento. Di recente hanno trattato i casi di alcuni ragazzi afghani e gambiani, alcuni dei quali vittime di torture. In Afghanistan l’omosessualità è punibile con la pena di morte, mentre «in Gambia non è reato, ma c’è un accanimento verso gli omosessuali». Storie di omofobia e di violenze che si sommano ai racconti delle traversie affrontate per giungere in Italia.
L’assistenza legale ai migranti richiedenti asilo è solo uno degli aspetti che l’associazione affronta. Il tutto senza avere nemmeno una sede. «Non abbiamo uno spazio – afferma il presidente del circolo – Una delle nostre richieste all’amministrazione comunale è ottenerne uno per fare anche un piccolo stallo, una foresteria». Così come a Catania, anche a Palermo si sente l’esigenza di poter accogliere chi non ha più una casa da considerare tale. «Sia per chi è fuggito, ma anche per le ragazze transessuali costrette a prostituirsi, per strapparne qualcuna dalla strada». La soluzione d’emergenza che si è costretti ad adottare, come spesso avviene, è affidarsi «alla rete di associazioni e movimenti a noi vicini». Anche se, «per fortuna i casi gravi sono rari». Storie come quelle di Davide, il ventenne fuggito dalla provincia di Palermo perché rinchiuso in casa dai familiari. «Sono stato io ad affrontare per primo la questione, ma non potevamo intervenire perché non c’era una denuncia. Ogni intervento è un rischio». Ancora più complicata la prassi in caso di minorenni: «Lì dobbiamo agire con i servizi sociali».
Difficile analizzare attraverso dati statistici le istanze più sentite dalla comunità. Anche per la diversa composizione della comunità lgbtq palermitana. «A differenza di Catania non abbiamo locali, discoteche o club per omosessuali – sottolinea Mirko Pace – Non abbiamo luoghi di ritrovo fissi, quindi è anche difficile fare, per esempio, dei rilievi sulla diffusione dell’hiv». Quello che potrebbe sembrare un difetto, uno sfilacciamento, per Pace è in realtà un pregio: «È una comunità non concentrata in luoghi necessariamente connotati, ma che vive molto più alla luce del sole».
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