Logo Unict, parla l’ideatore della nuova strategia «Non solo maglie e social, serve attrarre cervelli»

In un mondo di cugini che avrebbero fatto meglio qualunque cosa, c’è a chi tocca conoscere chi – secondo i più – le fa peggio e viene pure pagato. È il caso di chi scrive, che conosce da ormai più di dieci anni Simone Tornabene, responsabile della strategia per l’agenzia iMille da ieri al centro delle critiche dopo la presentazione del logo dell’università di Catania (diverso dall’attuale sigillo, che rimane). E se questo rapporto avrebbe dovuto suggerire una diversa firma all’intervista, in realtà rappresenta il pieno titolo a realizzarla. Non fosse altro perché, mentre sui social non si contano i commenti infuriati per la commissione e il relativo pagamento andati a un’agenzia di Milano (e con altre quattro sedi, di cui due all’estero), chi scrive è in grado di rivelare che l’ideatore della strategia non è solo catanese – ex studente della Scuola superiore di Catania – ma persino del Fortino. Dove la sua numerosa famiglia d’origine – non diremo il numero esatto per la privacy, ma è compreso tra sette e nove – è probabilmente stata un ottimo terreno di prova per imparare a gestire conflitti e gusti personali.

Togliamoci subito dall’imbarazzo: il mio voto va a quelli che a me non piace. Va bene che un logo è come le battute, se le spieghi non hanno più senso, ma un aiutino?
«Aiuterebbe partire dal fatto che non dovremmo parlare di un logo, che è solo una parte del lavoro, ma della progettazione di una nuova identità. Che può piacere o non piacere, ma nessuno si è soffermato sui motivi della necessità di questo cambio. Unict non aveva un logo perché, come molte università, usava un sigillo, creato per un altro fine. Si è ritrovata un’eredità storica e ha cercato di usarla nella modernità ma, per dirne una, se lo metti sui social, dove le foto sono piccoline e i particolari indistinti, diventa illeggibile e chi ci interagisce nemmeno ne riconosce gli elementi. Per capirci, la Bocconi, prima università d’Italia nei ranking internazionali, sui social usa solo una B maiuscola. Tra l’altro, la maggior parte di quelli che oggi tuonano contro la nuova immagine e invocano il ritorno alla vecchia, non la conoscono nemmeno: nel sigillo c’è un elefantino con la A sopra. Chi saprebbe dire per cosa sta?».

(Non dire Agata, non dire Agata, non dire Agata…). Non lo so, per cosa sta?
«La maggior parte ti risponde “Agata” (l’ho scampata, ndr), ma in realtà è Atena, che prima era rappresentata a cavallo dell’elefante. Quello che siamo abituati a vedere non è nemmeno il sigillo originale ma una manipolazione del 1930, epoca storica poco positiva per il Paese. Per noi stessi è stato un viaggio di scoperta nell’identità di Unict di cui conoscevamo poco e, come capita spesso, abbiamo scoperto simboli di cui faremmo bene a liberarci. Un esempio è il rebranding di Enel nel 2016, fatto dall’agenzia ritenuta la migliore al mondo in questo campo, la stessa che si è occupata di Google: ha ricevuto critiche per tre settimane, eppure oggi Enel è la prima azienda quotata in borsa di pubblica utilità d’Europa e prima al mondo per energie rinnovabili. Quanti di quelli che volevano il vecchio logo sapevano che all’interno c’era un rimando all’energia atomica? Che oggi vorremmo certamente dimenticare. Le critiche guardano indietro, ma dobbiamo davvero scomodare gli Aragona per definirci siciliani? Noi guardiamo piuttosto a cosa vogliamo diventare».

Prima di parlare di questo, la domanda che preme di più a tutti: confermi che sulle tesi resterà il sigillo?
«Unict sta ancora predisponendo le sue linee guida per i vari utilizzi, ma di certo il sigillo storico rimarrà nei documenti ufficiali, le pergamene e le tesi. Il logo andrà in tutte quelle cose che secoli fa non esistevano: dal merchandising ai social. L’attrattività dell’università non è solo una questione economica, ma è anche attrazione di cervelli che entrano in contatto con il territorio e poi, anche quando vanno via, restituiscono sempre qualcosa. Per questo, oggi, la necessità è parlare a mia sorella che è della generazione z, abituata a giudicare un’immagine digitale, non a chi è già laureato. Che ha avuto una reazione di pancia. Ma se difendere a prescindere lo status quo fosse uno sport, la Sicilia sarebbe campione d’Europa».

Così arriviamo al punto. La maggior parte delle critiche si concentra sul fatto che il logo sia troppo pop. Più da squadra di calcio che da istituzione. Eppure a Unict si rimprovera da anni di non essere abbastanza moderna per attrarre iscritti. Volevate puntare a questo?
«Si rischiava di essere fuori dalla categoria dei mega atenei per l’emorragia di studenti degli ultimi anni. Questo anno, invece, è stato record di immatricolazioni e credo dipenda proprio dai forti segnali di discontinuità col passato che sono venuti dal nuovo rettore Francesco Priolo, capace di caricarsi sulle spalle l’ambizione di non copiare il modello migliore già esistente ma di inventarne uno nuovo. Noi stessi ci aspettavamo resistenza dentro l’università, popolata da docenti con un’età media alta e spesso posizioni conservatrici. Paradossalmente siamo stati sorpresi dal favore interno, mentre le critiche della cittadinanza le trovo interessanti. Da un lato, sono positive perché significa che Unict è riconosciuta come un’istituzione importante per la città. Dall’altro, se la si crede così importante, dov’erano i cittadini quando Unict ha avuto bisogno di loro? Quando, ad esempio, si parlò di chiudere la Scuola superiore?». 

Un’altra realtà che non sempre raccoglie simpatie. Il che ci porta all’ultima critica: i costi e la fuga al Nord della spesa.
«Sui costi nemmeno mi soffermo. C’è dietro un anno di lavoro, di ricerche e di riunioni con cinque docenti delegati alla comunicazione che hanno assorbito giornate intere. E comprendono l’intero lavoro: studio, campagna, logo, applicazioni di merchandising. Non ci abbiamo guadagnato, in sostanza, l’ho fatto perché volevo restituire qualcosa al territorio. E proprio questo è il punto per me: spesso, a proposito della Scuola superiore, sento dire “Perché investire nell’istruzione d’eccellenza di persone che poi vanno fuori?”. Tralasciando il fatto che se si parla di persone che, come me, sono di Catania, hanno qui la loro residenza e hanno pure comprato casa, di milanese c’è solo la fattura, se cominciamo a fare parrocchie possiamo frammentare all’infinito. Ma, soprattutto, l’economia moderna non funziona così: il meglio locale, che abbiamo sfidato sui progetti, non è il meglio assoluto. Ci si è mai chiesti perché le realtà etnee non sanno mangiare il mercato di Milano? Perché guardano l’ombelico del mondo, Catania appunto, ma il mondo va avanti e si evolve fuori da Catania».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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