«Esistono troppi equivoci e lacune circa la storia dei generi, soprattutto quello femminile della seconda metà del 900 e sulle sue lotte per l’affermazione dei diritti». E proprio con l’intento di chiarire questi dubbi e colmare i vuoti, la sociologa e professoressa dell’Università di Catania, Graziella Priulla, ha scritto il libro C’è differenza. Un’opera, come suggerisce il titolo, per parlare della diversità che esiste tra i generi e delle mille sfaccettature che quotidianamente influenzano il nostro pensiero nell’approccio all’altro, soprattutto nei confronti dell’altro sesso.
«È un libro che nasce da una serie di esperienze fatte per lavoro che mi hanno fatto capire che c’è un enorme bisogno di parlarne ancora», spiega l’autrice, e dalle richieste di molti di saperne di più. «L’obiettivo finale, poi – spiega ancora la docente – è di inserirlo all’interno di un progetto più grande che porto avanti insieme a molte altre donne per introdurre lo studio della disciplina di genere nelle scuole e nelle università, così come sollecitato dallUnione europea». Serve un’educazione all’altro, insomma, secondo la professoressa. Molto, nellapproccio con le altre persone, infatti, dipende «dal quotidiano, dalleducazione che ci hanno dato i nostri genitori e dai canoni della società in cui viviamo», spiega Priulla. La differenza nei sessi è evidente e insopprimibile, «ma può comunque esserci rispetto reciproco pur nelle diversità», afferma la docente, e invece – aggiunge – «questa società sembra andare contro le donne. Dalla rappresentazione del corpo che ne fa un oggetto, al linguaggio utilizzato». Spesso accade infatti che la figura della donna sia più legata allapparenza che alla sostanza, al contrario di quella maschile.
La nostra società è tanto ricca di stereotipi che finanche per offendere qualcuno si fa riferimento a sfere concettuali differenti in base al sesso della persona da colpire. «Ho chiesto a dei giovani studenti che offese avrebbero rivolto a un uomo e a una donna e ne è risultato che puttana, troia e mignotta sono quelle che userebbero per apostrofare una donna; stupido e ignorante, quelle per apostrofare un uomo – racconta Priulla – Siamo nel terzo millennio, però, e se è vero che molti giovani maschi di oggi sono diversi dai loro padri e dai loro nonni, dobbiamo parlare ancora della differenza di genere per abbattere questi stereotipi arcaici».
Il linguaggio legato alla sfera femminile è spesso impregnato di allusioni sessuali. Moltissime le pubblicità, non importa se multimediali o stampate, che supportano questa scelta. «Te lo mettiamo in bocca», parlando di gelato o «te la diamo gratis» in riferimento alla macchina del caffè, sono alcuni esempi recenti. Cartelli visibili in giro per la città proprio in questi giorni. Recentemente ha anche scatenato la polemica la scelta di cambiare il nome di uno dei locale della playa di Catania, da Barbara beach a Barbara bitch. «Si tende sempre a sminuire, a fare passare la cosa come divertente e assolutamente normale, ma non ci si rende conto che è tramite i piccoli gesti e le abitudini inavvertite che veicoliamo un messaggio piuttosto che un altro», spiega la docente condannando tali scelte.
Le protagoniste in negativo di queste campagne sono sempre le donne, alcune delle quali sono anche «colpevoli di prestarsi alla mercificazione di se stesse». Il perché è semplice secondo la sociologa: «In tv come in pubblicità, è una scelta comoda. Sono vittime del narcisismo e dei soldi afferma Daltra parte, si è capito che cosce e tette in bella mostra fanno alzare laudience televisivo, ovvero lunica cosa che importa al mondo dei media».
Un fenomeno tutto italiano quello delle donne veline, «tanto che questa parola non ha traduzione in altre lingue», dice ancora la docente, e nel tempo sembra anche peggiorato. «Per fortuna però – aggiunge Priulla – le donne non sono tutte uguali, così come non lo sono tutte le trasmissioni. Ciao Darwin lo trasmette solo Canale 5 ad esempio, e in trasmissioni di approfondimento serio non ci sono scosciate in primo piano», sostiene.
Graziella Priulla è anche una delle sostenitrici della petizione lanciata dallassociazione Levoltapagina al neo primo cittadino etneo, Enzo Bianco, perché si affronti la questione femminile. «Ha dato subito la sua disponibilità dicendo che vuole fare di Catania una città amica delle donne. Potrebbe essere un buon inizio per la sua amministrazione», riferisce la professoressa. Tra i punti menzionati particolare importanza viene data alla possibilità di istituire un codice deontologico per il linguaggio legato al mondo dellinformazione e a quello dei media. «Le parole sono sempre importanti e un esperto in comunicazione non può permettersi di veicolare messaggi in modo equivoco».
La sociologa si riferisce soprattutto, ma non solo, a tutti quei casi di femminicidio decritti sui giornali come omicidi per troppo amore, o raptus di follia. «Dovrebbe essere chiaro che se mi ammazzi non mi ami per nulla e che se mi segui tutto il giorno con un coltello in tasca e poi mi uccidi, non hai avuto nessun raptus». Invita dunque a riflettere e a cambiare il modo di pensare ai rapporti tra i generi, «perché – dice – le relazioni sono snaturate sin dalla tenera età quando i giocattoli per le ragazzine sono mini cucine o mini case da accudire».
La professoressa rivolge una sorta di appello sia gli uomini che alle donne. Alle prime chiede di valorizzarsi e farsi valorizzare nella propria diversità di essere donna; agli uomini invece un moto di ribellione. «Ma non si sentono lesi nella loro dignità se valgono solo in virtù della sottomissione dellaltro e non sono capaci di reggere un rapporto paritario che è molto più interessante?», si chiede.
[Foto di Graziella Priulla]
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