A 25 anni dall’appello di papa Giovanni Paolo II contro la mafia nella Valle dei Templi di Agrigento, i vescovi siciliani sono tornati a riunirsi nello stesso luogo e per l’anniversario hanno scritto una lettera indirizzata a tutti i fedeli siciliani, ma anche ai parenti delle vittime di Cosa Nostra e agli stessi mafiosi, a cui rinnovano l’appello di papa Wojtyla: «Convertitevi!».
Cosa Nostra è definita « un’anemia spirituale». «Tutti i mafiosi – si legge nella lettera dei vescovi siciliani – sono peccatori: quelli con la pistola e quelli che si mimetizzano tra i cosiddetti colletti bianchi, quelli più o meno noti e quelli che si nascondono nell’ombra. Peccato è l’omertà di chi col proprio silenzio finisce per coprirne i misfatti, così facendosene – consapevolmente o meno – complice. Peccato ancor più grave è la mentalità mafiosa, anche quando si esprime nei gesti quotidiani di prevaricazione e in una inestinguibile sete di vendetta. Peccato gravissimo è l’azione mafiosa, sia quando viene personalmente eseguita sia quando viene comandata e delegata a terzi. Strutture di peccato sono le organizzazioni mafiose, perché con i loro intrighi e i loro traffici si rivoltano contro la volontà divina e producono quello che san Paolo chiamava il «salario del peccato», cioè la morte (Rm 6,23). La morte fisica, che le azioni mafiose causano dolorosamente tra gli esseri umani. E la morte radicale, che rimarrà – nel momento supremo del giudizio di Dio – inconciliabile con la vita eterna».
Il documento tocca poi il rapporto tra mafia e Chiesa. «La mafia è un problema che tocca la Chiesa, la sua consistenza storica e la sua presenza sociale in determinati territori e ambienti, il vissuto dei suoi membri, di quelli che resistono all’invadenza mafiosa e di quelli che invece se ne lasciano dominare. Ed è un problema che ha dei contraccolpi anche sull’autoconsapevolezza della Chiesa e sull’immagine che di sé essa offre, allorché afferma con forza profetica l’irriducibilità delle opzioni mafiose allo stile evangelico, oppure quando si distrae e tace o, ancora, quando con un attento discernimento spirituale riconosce quali migliori figli suoi coloro che hanno lottato e lottano per la giustizia, fianco a fianco con chi è stato e resta nella trincea dell’impegno civile e statale contro le mafie».
I vescovi non nascondono che la Chiesa è rimasta in alcuni casi e in certi territori «ambiguamente in silenzio». Ma si interrogano su come non limitarsi alle parole. «Le condanne pubbliche e le scomuniche più o meno esplicite, nella società mediatica in cui viviamo, hanno eco brevissima: giusto il tempo della notizia che suscitano. Poco male, se non passassero inascoltate nelle parrocchie e per le strade delle nostre città e dei nostri paesi. Non importa che i media non ne parlino o non ne parlino adeguatamente, o che qualche commentatore continui a criticare il silenzio “istituzionale” della Chiesa. Deve piuttosto preoccuparci che il nostro discorso soffra di una certa inefficacia performativa: cioè non giunga a interpellare e a scuotere davvero i mafiosi, da parte loro non certo interessati a leggere i documenti ecclesiali».
L’obiettivo è invece trovare «un respiro pedagogico capace di far crescere generazioni nuove di credenti. Avvalendoci di un lessico peculiare – del resto innestato con parole più laiche, a cominciare da quelle che esprimono il rispetto della legalità e il valore del bene comune –, dobbiamo immaginare una metodologia formativa per piccoli e grandi, per giovani e adulti, per gruppi e famiglie, nelle parrocchie e nelle associazioni, con una sistematica catechesi interattiva, il più possibile pratica e contestuale, attinente cioè ai problemi dell’ambiente in cui abitano coloro cui essa è destinata, per giungere a motivare e a trasmettere stili di vita coerenti al Vangelo e improntati alla giustizia e alla misericordia. E per contribuire così, per come ci compete, ai processi di rinnovamento avviatisi in seno alla società civile».
Ribadendo che l’atteggiamento nei confronti dei mafiosi deve essere quello di spingerli a una conversione «autentica» e «non intimistica», si tocca infine anche il tema dei riti religiosi, le processioni, la cosiddetta pietà popolare. «Non possiamo rassegnarci a veder degenerare le varie forme di pietà popolare in espressioni di mero folklore, manovrabile in varie direzioni, anche da parte delle famiglie mafiose di quartiere, in quest’ultimo caso soprattutto per fini di visibilità e di legittimazione sociale. Non possiamo tollerare che le festività di Cristo Gesù, di Maria Madre sua e dei suoi santi degenerino in feste pseudo-religiose, in sagre profane, dove – nella cornice di subdole regie malavitose – all’autentico sentimento credente si sostituiscono l’interesse economico e l’ansia consumistica, e dove non si tributa più onore al Signore ma ai capi della mafia».
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