Tanti matrimoni felici, sulla carta, ma un viaggio di nozze da incubo. Questo sono state per i partiti le vacanze romane per l’elezione del presidente della Repubblica. Dietro al plebiscito di voti incassato dal presidente Sergio Mattarella c’è infatti lo specchio di una politica litigiosa, che ha immense difficoltà nel dialogo con i suoi stessi amici, prima ancora che con gli oppositori. Non c’è una coalizione che non abbia traballato. A destra hanno fatto dei nomi, poco forti, poco condivisi, un fallimento su tutta la linea, che è poi sfociato in attriti e frizioni, con il tentativo di Matteo Salvini di salire sul carro del vincitore per l’appoggio dato al presidente uscente, che si è tuttavia ritrovato sconfitto per la seconda volta in pochi giorni dopo il flop Casellati. Chi sul fronte conservatore può più di tutti fare la voce grossa a questo punto è proprio chi il carro del vincitore non l’ha nemmeno sfiorato: Fratelli d’Italia, unico partito a votare in maniera compatta contro Mattarella incassando una sconfitta che pagherà non poco a livello di credibilità agli occhi del suo elettorato.
In questo senso chi sembra avere bussato alla porta giusta è Nello Musumeci, che proprio a Roma ha utilizzato i tempi morti tra una votazione e l’altra per chiudere l’accordo con Fratelli d’Italia per la ricandidatura. Una ricandidatura – con supporto di coalizione -che sembra sempre meno improbabile vista il modo in cui il fortino del centrodestra si è sgretolato quando c’è stato da prendere una decisione, difenderla, portarla avanti. Le elezioni del presidente della Repubblica e quelle del presidente della Regione sono cose molto differenti, certo, lo ha confermato anche la senatrice di FdI Tiziana Drago, intervenuta ieri alla trasmissione Direttora d’Aria su Radio Fantastica Rmb, ma gli attori in campo sono gli stessi e anche in questo caso manca il nome forte a tal punto da far vacillare le convinzioni delle aree più influenti della coalizione. Dal coordinatore leghista Nino Minardo ai tanti di cui si è vociferato, nessuno pare in grado di spostare gli equilibri. Sempre ammesso che Gian Franco Miccichè non voglia scendere in campo. Ma a quel punto si dovrebbe fare i conti con degli equilibri di coalizione che oggi come non mai sono incredibilmente diversi rispetto a quattro anni fa.
Acque più calme, ma solo in superficie in casa centrosinistra. Il Pd ha retto con la sua politica estremamente attendista, a Roma non ha fatto nomi e non si è espresso in maniera eccessivamente critica sulle proposte arrivate dagli altri, ha demandato ogni responsabilità alle urne e al voto segreto e ha lasciato che gli altri si inguaiassero con le proprie mani. Massimo risultato con il minimo sforzo. Una strategia che sembra ricalcare per certi versi quella intrapresa in Sicilia, dove si dice d’accordo per le primarie di coalizione ma non spinge per averle, non smentisce le notizie sui nomi proponibili per la rosa dei candidati, ma non si espone. In questo caso però il finale dovrà giocoforza essere diverso, in Sicilia la decisione andrà presa e sarà quella che farà vincere o perdere le elezioni.
Elezioni a cui si presenta con qualche ammaccatura di troppo il Movimento 5 Stelle, reduce da un lavoro a tratti poco comprensibile svolto da Giuseppe Conte dietro alle scrivanie romane, dalle presunte intese sotto banco con gli avversari alle frizioni con Luigi Di Maio, che da par suo è stato bravo a cavalcare l’onda. Di frizioni interne nell’alveo grillino di palazzo dei Normanni ne sanno eccome, ma finora a queste latitudini sono sempre riusciti a smarcarsi egregiamente e a non alzare il livello della polemica interna oltre i limiti del consentito. Anche qui però ci sarà da lavorare: il tempo stringe e tra chi vuole le primarie e chi no e chi si candida in autonomia – vedi Giarrusso – sarà meglio quanto meno fissare dei tempi per esprimere una posizione unitaria.
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