Bisognava avere fede e poi i soldi sarebbero arrivati. Grazie al Vaticano e alla promessa di impegnarsi a fare opere caritatevoli. Le vittime della truffa che, secondo la procura di Catania, avrebbe architettato il 37enne Alfio La Rosa – con la stretta collaborazione di Venerando Gianluca Ferlito, Carolina Millia e del commercialista Antonio Cristaldi – sarebbero state circuite anche puntando sul loro sentire religioso. I quattro sono i principali indagati nell’inchiesta Money Back della guardia di finanza, che qualche giorno fa ha portato al sequestro di 16 società e di disponibilità finanziarie per oltre 500mila euro. La Rosa è finito in carcere. Il gip ha accolto la richiesta di domiciliari per gli altri tre che, insieme a lui, sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, anche nei confronti dello Stato, riciclaggio e autoriciclaggio.
Nel mirino degli inquirenti sono finite le attività portate avanti dal gruppo, con il contributo di altre undici persone indagate a vario titolo, nell’ambito di procacciamento di finanziamenti a tassi agevolati. A patire i danni, oltre alle vittime dei raggiri, sarebbe stata anche la Regione Lazio, tratta in inganno al fine di ottenere erogazioni pubbliche. Un ruolo essenziale in questa storia sarebbe stato svolto dalla Fondazione Vita & Salute. L’ente dichiarava di avere sede in via Attilio Regolo a Roma, in uno stabile che la finanza ha appurato ospitare diversi virtual office ma non uno riconducibile a essa. Per gli inquirenti, Vita & Salute di fatto sarebbe stato soltanto uno strumento per spillare soldi a coloro che venivano avvicinati e sedotti dalla possibilità di accedere a risorse a fondo perduto.
Lo schema sarebbe stato sempre lo stesso. Il gruppo, dopo avere informato delle vantaggiose opportunità che esistevano all’ombra del Vaticano e alle donazioni dell’otto per mille, chiedeva di presentare un progetto da finanziare. Dopo che questo risultava essere stato apprezzato, alle vittime veniva chiesto il pagamento di spese amministrative per 11.900 euro. Insieme al pagamento andava consegnato anche un libretto postale su cui sarebbero state poi accreditate le somme richieste. In realtà, da quel momento, il gruppo non avrebbe fatto altro che trovare scuse e tergiversare, fino a quando veniva tirato un ballo, come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «il fantomatico dottor Marco Simeoni, spacciato alle ignare vittime quale unico incaricato allo sblocco delle somme per conto della procura della Repubblica, della guardia di finanza e di Poste». Davanti alle lamentele di chi aveva pagato quasi 12mila euro e vedeva passare il tempo senza avere notizie del finanziamento, il gruppo avrebbe anche mostrato bonifici che simulavano la restituzione dei soldi ma che, in realtà, non sarebbero mai stati realmente fatti.
Alle vittime veniva chiesto di versare il denaro alla Italservizi. Gli accertamenti degli investigatori hanno appurato come le transazioni finanziarie della società, riconducibile agli indagati, siano collegate tutte ai pagamenti per la presunta truffa. Da qui i soldi sarebbero stati spostati per larga parte sui conti personali dei principali indagati. A partire da quello di La Rosa, sul cui conto il giudice per le indagini preliminari Andrea Filippo Castronuovo scrive che «vanta condanne e carichi pendenti per truffa, riciclaggio, falso». Parte dei proventi, inoltre, Italiservizi li avrebbe girati sui conti di società maltesi, una attiva nel settore della rivendita di auto e un’altra specializzata in consulenze finanziarie.
AGGIORNAMENTO: il procedimento a carico di Alfio La Rosa si è concluso con l’archiviazione del disposta del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Catania.
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